Storie

Altre Storie – Storie per quattro
Ziozulù

Festa per le nozze d’argento di Giorgio e Claudia. Invitati naturalmente anche Vincenzo l’ingegnere, Eugenio l’avvocato e il giovane Luigi, tre del “quartetto delle storie”.

È stato Giorgio, il quarto del gruppo, professore e medico degli altri tre, a battezzare così il loro sodalizio, che in origine era un terzetto di raccontatori. E tale in realtà rimane: l’ultimo arrivato, Luigi, praticante l’avvocatura, sta solo a sentire, perché non ha il minimo dono di narrare. A metà di una storia o di una barzelletta si blocca, non si ricorda come va a finire. E ogni volta che ci prova è uno spasso. Non meno del suo antiquato disagio, tanto più ridicolo in un giovane, quando sente pronunciare certe parole o accennare a situazioni considerate un tempo scabrose, sconvenienti, e che oggi sono normale argomento di conversazione. 

La festa in casa del professore è allegrissima. Gente simpatica, bei regali (Luigi, detto Gigetto, ha portato una statuina Liberty di innamorati castamente avvinti, molto gradita da Claudia), ottima roba da mangiare e da bere. Al momento di tagliare a due mani la torta, non sono solo i maturi sposi a sentirsi commossi. 

Spicca tra i doni, incorniciata in argento, una vecchia foto di gruppo delle nozze. E il professore dice: indovinate chi non c’è. E spiega che mancava nell’immagine uno dei comprimari del rito, un testimone, un amico giornalista, scappato di corsa dalla chiesa quando erano venuti ad avvertirlo che un piccolo aereo era caduto poco prima in periferia. Una cosa mai successa in città dal tempo della guerra. Ora il testimone c’è, un po’ ingrigito venticinque anni dopo, e non si può sottrarre all’ennesima rievocazione dell’incidente, capitato proprio al momento dello sposalizio, ma con pochi danni e nessuna vittima, per fortuna. Tranne il giornalista, che s’era perso il pranzo nuziale. Ancora una volta, una storia. 

Chi è quel nero che spunta dietro di voi, chiede Luigi, indicando uno spilungone africano che nella foto di nozze sovrastava gli altri di quasi cinquanta centimetri.

Quello? Macché nero, è mio zio Alfio, ne parliamo tra noi domani sera, un’altra storia, dice Giorgio.

La sera dopo, al solito posto, eccoli di nuovo riuniti, i quattro delle storie, senza nessun altro, nemmeno le mogli o fidanzate, come per un rituale segreto.

Scusa per ieri, mormora imbarazzato Luigi, dopo che sono finiti i complimenti di tutti per la festa riuscita, ma dalla foto non si capiva bene se quel…

Parli di mio zio Alfio, lo interrompe il professore, ed eri in dubbio se era nero, anzi negro, come si diceva una volta. Effettivamente, la fotografia accentua i caratteri somatici “equatoriali” di mio zio. Tipici, aggiunge dopo una pausa ben calibrata, del ceppo Negride.

Gli altri amici drizzano l’orecchio. Ah, allora una volta tanto aveva ragione Gigetto, commenta l’avvocato.

Sì e no. La faccia del fratello di mia mamma è (anzi era, perché è morto qualche anno fa), indubbiamente appiattita. E il naso camuso. Direi di più: schiacciato dai pugni che aveva preso da giovane tirando da medio-massimo. Era bravo, avrebbe fatto carriera da pugile se avesse pensato meno alle donne. Anche il prognatismo del mento e le labbra tumide (“everse” è il termine tecnico), erano altre caratteristiche significative.

Adesso che mi ricordo, interviene l’ingegnere, tuo zio credo di averlo visto, mentre passeggiava in centro. Altissimo. Ho pensato: guarda un negro. Allora era strano, non ce n’erano in giro.

Anch’io me lo ricordo, dice l’avvocato. Sta a vedere che avevi uno zio negro. Forse i suoi l’avevano adottato. Non assomigliava certo a te. Giorgio, tu sembri, sembri (salvo errore), di pura “razza ariana”. Eugenio si accosta al professore e lo esamina comicamente da vicino, per vedere se è vero.

Ulteriori indizi a carico di mio zio, continua senza scomporsi il professore, erano il bacino stretto, le proporzioni longilinee del corpo e delle membra, l’alta statura (quasi due metri e cinque), la pelle glabra (solo in faccia i peli erano “europei”) e molto scura, specie d’estate, quando zio Alfio si abbronzava senza scottarsi e diventava un pezzo di carbone. E poi c’era il capello nero e crespo…

Sì, e la sveglia al collo, aggiunge l’avvocato.

Scusa, Giorgio, mi sembra che tu ci stia prendendo in giro, dice Luigi.

Assolutamente no, nega serio il professore. Volete che vi racconti la storia di mio zio, o no?

Va’ avanti, esorta l’ingegnere.

Il bello è che da lattante lo zio pare avesse avuto i capelli ondulati.Addirittura “riccioli biondi”, se si deve credere a quanto affermava, forse esagerando per affetto del fratello, la mia povera mamma, che diAlfio era più vecchia di vent’anni.

Eeh! Un bambino nero coi ricci e biondo, io non l’ho mai visto, dice l’avvocato.

In America c’è di tutto. Va’ a San Francisco, o in Brasile, obietta l’ingegnere, che ha girato il mondo.

Lasciamo stare il biondo, precisa il professore, ma posso assicurarvi che l’ondulazione infantile non è una prova di un’origine non negride. Io ho studiato le specificità etniche, fa parte della mia professione sapere anche queste cose. Ebbene, è accertato che, alla nascita, il capello del nero è sempre ondulato, e acquista l’andamento ad elica e la forma cresputa solo dopo un certo periodo. E questa sarebbe semplicemente la prova (secondo qualcuno, se mi ricordo bene Lefrou) che la “elicotrichia” negride è un carattere acquisito secondario e che l’antenato del nero, anzi di tutti i negroidi, aveva i capelli come il bianco e, del resto, come tutti i mammiferi dell’ordine dei Primati.

Comprese le scimmie?, chiede Gigetto.

Certo, tutte, dallo scimpanzé all’orango, al gorilla, al gibbone, al mandrillo.

Mah. Non ho mai sentito parlare di gorilla con la permanente, dubita Eugenio.

I tre sono un po’ perplessi, ma Giorgio è un professore, quasi uno scienziato, se non sta scherzando, come non sembra, bisognerà credergli.

Vi dirò, prosegue Giorgio, che nessuno si è mai sognato di considerare lo zio Alfio un “negro”, se non per gioco. I suoi fratelli, ne aveva ben nove, erano tutti perfettamente bianchi di altezza e di aspetto normale, come la mia mamma. E mi ricordo che anche i suoi genitori, i miei nonni materni, erano bianchissimi.

Forse tua nonna in gioventù ha avuto una sbandata, scusa, tanto per fare un’ipotesi, insinua l’avvocato.

Accetto le scuse e ti rispondo subito, dice il professore. A quei tempi, di neri qui in giro non ce n’erano. A Roma c’era qualche libico o eritreo o abissino, dopo la campagna in Africa Orientale, che però biologicamente non sono “negri”. Solo più tardi si sono visti quelli venuti con gli Americani a fine guerra, ma allora mio zio aveva già trent’anni. Mia nonna, negli anni prima della prima guerra mondiale, quando era avvenuto il concepimento, avrebbe dovuto andarsi a cercare il drudo in Africa, ma credo che il suo viaggio più lungo (era religiosissima), sia stato un pellegrinaggio a Padova alla Basilica di Sant’Antonio.

E allora?

Allora, allora. Lasciatemi raccontare. L’aspetto innegabilmente negroide di mio zio Alfio è sempre stato solo un pretesto di battute allegre, per i suoi amici e anche per la famiglia. Era considerato uno dei tanti scherzi della natura. Una singolarità di cui una volta ci si poteva anche vantare. Come delle patate e zucche a forma di animale o di faccia umana che i contadini mandavano alla Domenica del Corriere.

Sì, conferma l’ingegnere, c’era una rubrica apposta.

Vi confesserò, dice il professore, che io fin da ragazzo mi sono interessato alla morfologia umana anche pensando allo zio. Sostenevo addirittura (e ridevano tutti, zio compreso), di aver individuato in lui i caratteri della sottorazza Bantuide (o Cafride secondo altri, von Eickstedt per esempio), la cui etnia più importante è formata dagli Zulu (che allora in italiano dicevamo Zulù con l’accento sulla u finale). Proprio io avevo detto: d’ora in avanti ti chiameròZiozulù. Che era diventato il suo soprannome. Tutti in famiglia lo chiamavano così. Segni del destino.

Perché destino?

Perché, venuta la seconda guerra mondiale, Ziozulù era stato chiamato alle armi (tra i granatieri, naturalmente, data la statura), e spedito a guerreggiare in Africa. Fatto prigioniero dagli inglesi, sapete dove finì?  In Sudafrica, esattamente nella regione nord-orientale del Natal che si chiama Kwazulu in lingua bantu. E sapete come è segnata sulle carte? Zululand.

Tutti scoppiano a ridere.

Dopo un po’, lo avevano mandato in una grande fattoria, dove gli uomini bianchi erano alle armi e mancavano guardiani per badare ai neri al lavoro. Al ritorno, sosteneva che erano stati gli anni più belli della sua vita. Secondo lui, vagava a cavallo tutto il giorno nei pascoli della pianura australe con una squadra di mandriani zulu e con centinaia di bovini. Si era fatto crescere dei folti baffoni a spazzola, che erano diventati il segno del suo comando, e della sua diversità. Baffoni che piacevano alle donne, nere e bianche, tra le quali Ziozulù sosteneva di aver assolto gagliardamente il suo dovere di italiano.

Si sentiva a casa, dice l’avvocato. Certo, per le bianche era un bianco abbronzatissimo che consentiva loro di cavarsi il gusto di farsela con un maschione che sembrava uno di quei bellissimi e proibitissimi neri. E per le nere era uno di loro, che però era un bianco. Bel colpo.

Non so quanto si può credere a quel che raccontava mio zio, che è sempre stato un gran ballista. I divieti dei rapporti con i prigionieri erano assoluti e le pene molto gravi. Mah, secondo lo zio, l’erba alta della prateria nascondeva tutto meglio di un’alcova. Era tornato con molte storie e certe fotografie, che mostrava riservatamente agli amici. Ne ho vista qualcuna anch’io, ma si vedeva solo lui in piedi con delle bianche e delle nere intorno, niente di piccante, non era una vera prova delle sue avventure. Anni dopo, ricorda il professore, Ziozulù ha cambiato versione: si era messo con quelli della destra e dichiarava che per lui la prigionia in Africa era stata un martirio. Tra loro lo consideravano un eroe. Vallo a sapere.

E poi?

Poi lo zio ha seguitato in città la sua bella vita, su questo non ci sono dubbi. Frequentava le balere e non cavalcava più nelle praterie ma lungo le rive del fiume, dopo poche ore di lavoro comodo in un ufficio comunale assegnatogli come reduce. Piaceva molto alle donne. Lo consideravano una specie di emigrato siciliano alto, anche per il nome, Alfio, che in realtà era solo un omaggio di mio nonno Giuseppe, melomane, al carrettiere della Cavalleria Rusticana. Pare che le prestazioni di Ziozulù fossero molto apprezzate. Tra l’altro, non era lungo e grosso solo in altezza, questo lo posso testimoniare. Una volta l’ho intravisto in piscina, mentre si metteva il costume. Indubbiamente notevole.

Uno stallone, avevi uno zio stallone!, esclama l’avvocato.

Vi dirò che aveva preso da suo padre che, secondo le voci di famiglia, era un mandrillo. Ma solo da quel verso, perché il nonno era piccolissimo, gareggiava in bassezza con il Re Vittorio Emanuele III, che era praticamente un nano. Tanto che avevano dovuto abbassare il limite minimo di statura dei militari, per fare abile il re alle armi.

Stai scherzando, dice l’ingegnere.

No, è la pura verità. Però, da quei nani… Mi ricordo che la mamma sentenziava: da uomo piccolo e da donna normale (mia nonna), nasce un gigante. Si inventava una legge genetica basandosi su due soli casi: suo fratello e il Principe di Piemonte, che era altissimo. Ziozulù era l’agognato riscatto, la materializzazione dei desideri di gigantismo del nonno. E penso che il principe Umberto di Savoia lo fosse per il re, che aveva i cugini duchi d’Aosta tutti alti due metri.

Giustizia distributiva, dice l’avvocato.

Ma tuo nonno, chiede Luigi, non ha mai sospettato che la nonna, scusa, gli avesse in qualche modo messo le corna, magari senza andare in Africa?

Domanda impertinente, degna di te, caro Gigetto. Assolutamente no, benché il nonno fosse gelosissimo. E vi dirò invece che io stesso ho potuto avere la conferma che la nonna era innocente, pura come l’acqua. È stato a un funerale di un lontano parente. C’era anche una mia prozia, una sorella della nonna che stava a San Michele del Tronto e non avevo mai visto prima. Non so se avete presente Mammy, la governante nera di Rossella O’Hara in Via col Vento. Bene,sembrava lei, uguale spaccata.

Dunque è assodato, esclama l’ingegnere tra gli applausi dell’avvocato, il sangue Bantù, Cafride, o quello che sia di tuo zio (e quindi anche tuo, benché non si veda), viene dalle vene materne. Se non da tua nonna, da qualche antenata fedifraga…

O magari violata da un moro durante una scorreria piratesca, fantastica Eugenio.

Il professore allarga laconicamente le braccia.  Poi mio zio si è sposato. Con una stangona molto più giovane di lui. Aveva la mia età. Vincenzo, te la ricordi l’Aida? Nome afromusicale. Era al liceo con noi, in un’altra classe.

L’Aida? Me la ricordo sì! La più alta della scuola, tutta fuori misura. Bella ragazzona, nel suo genere. Coscia sterminata.

Ecco, quella è diventata mia zia. Una pelle bianca come il latte, che si estendeva gradevolmente per un metro e ottantasei centimetri, scalza. Era nato un grande amore.

L’incontro fatale tra due esseri fuori misura, dice l’avvocato.

Il professore scuote il capo. Purtroppo non è stato così. Tutti si stupivano che l’Aida, tranquilla e posata, lontana da ogni fantasia, avesse scelto uno come mio zio. Povera illusa. Un giorno, non era passato un anno, lei apre un cassetto…

E nel cassetto?

C’è, nemmeno tanto nascosta, una grossa busta piena di lettere. L’Aida le tira fuori e trasecola. È una corrispondenza da una casella postale, da una città del sud. Una Bionda Viziosa scrive a un Gran Maestro ricordando con piacere, nei minimi dettagli, le inaudite porcate compiute assieme ad un gruppo di assatanati, donne, uomini, travestiti, gay, lesbiche e altre varianti, sotto la guida del Maestro. La Bionda sembra rispondere a stretto giro di posta ad altre lettere sul tema, inviatele evidentemente dal Maestro in persona.

E scommetto che il Gran Maestro era tuo zio, anticipa l’ingegnere.

In un primo momento, Aida non ci crede. Pensa che sia solo dell’esecrabile materiale pornografico, è ferita e scandalizzata e vuol chiederne conto al marito, ma non immagina che lui sia personalmente coinvolto. Anche perché, secondo le lettere, che hanno delle date recenti, quei mirabolanti congressi carnali sono ambientati in grandi alberghi, in luoghi esotici costosissimi, dove non le risulta che Alfio sia mai stato. Le vacanze le fanno insieme, i soldi sono pochi, e mio zio non ha il dono dell’ubiquità, non può esse contemporaneamente nel suo modesto ufficio e all’altro capo del mondo. Però… A un certo punto Aida legge una descrizione di attributi del Gran Maestro nei quali crede di riconoscere le caratteristiche anatomiche dello zio. E subito dopo trova una lettera che comincia inequivocabilmente con un “Carissimo Alfio” e tutti i dubbi le cadono.

Hai capito, il maialone!, commenta l’avvocato.

Aida corre con gli occhi a cercare la firma e trasecola: non c’è il nome della Bionda Viziosa… ma di un uomo! E c’è poi l’indirizzo: è un geometra di Potenza!

Ma no, un geometra!, prorompono in coro l’avvocato e l’ingegnere.

Scusa, se ho capito bene, allora non c’era nessuna Bionda Viziosa?, chiede Luigi.

Eh, sì, caro Gigetto, tu non sai quanto siano morbosi i geometri, dice l’avvocato.

Senza il minimo imbarazzo, continua il professore, questo geometra si dice spiaciuto di non poter potuto subito aderire al desiderio ardentemente espresso da Alfio di un appuntamento vero. “Purtroppo non sono (per ora) una donna”, scrive la Bionda Viziosa. Non si sente “ancora pronta” ad uscire dalle fantasie e a ricevere di persona il Gran Maestro. “Ma verrà presto il giorno”, vaticina la falsa Bionda (certe frasi me le ricordo parola per parola, sono troppo belle), “in cui potrò accoglierti in tutta la tua potenza di maschio e cedere a tutte le tue voglie”.

Roba da matti! L’avvocato e l’ingegnere si sganasciano. Gigetto tace.

Anche il professore fatica a restare serio ma resiste. Chiede tempo, questo sciagurato: ”Continuiamo intanto a scriverci, mio Grande Maestro di piaceri, dimmi ancora tutto quello che vuoi fare a questa Bionda Viziosache brucia ogni giorno per te, aspettandoti”.

Avvocato e ingegnere si piegano in due dal ridere, anche guardando Luigi scandalizzato, che si sta coprendo gli occhi.

E tuo zio, che fa?

Mio zio…, mio zio continua a scrivere al geometra. E il geometra a rispondergli al femminile.

Le risate diventano sghignazzi, tremano i vetri, i bicchieri sul tavolo rischiano di rompersi.

L’ultima lettera della Bionda porta addirittura la data di tre giorni prima. Il Maestro è stato colto in flagrante adulterio, sia pure epistolare.

Ci vuole un po’ perché tutti si riprendano, e non contribuisce Luigi, che sèguita a scuotere la testa mormorando: patologico, patologico, non so cosa ci sia da ridere.

All’ora di cena, prosegue finalmente il professore, Ziozulù trova la casa vuota. Sulla tavola un solo piatto coperto. Sotto c’è una delle missive più sconce del pacco e un biglietto della zia Aida. Me lo ricordo ancora a memoria: “Caro Gran Maestro dei Maiali, se hai gli stessi appetiti di questa lettera della tua Bionda Viziosa, te la puoi mangiare. E’ l’unico cibo degno di te. Gli altri capitoli della tua storiaccia di pervertiti con il tuo geometra sono già nelle mani dell’avvocato. D’ora in poi da me non avrai altro da grufolare per pranzo e cena che le carte bollate della nostra separazione. Torno dalla mamma. Buon appetito”.

E poi, com’è finita?

Tentativi penosi dello zio di giustificarsi. Sosteneva che le lettere erano solo uno scherzo giocato a un collega d’ufficio. Smentito, ripiegò giurando che erano solo fantasie epistolari. Ma la zia, prima di andarsene, aveva buttato all’aria tutti i cassetti e ripostigli scoprendo altri pacchi di lettere, firmate stavolta non da geometri bensì, magra consolazione, da donne vere. Con tanto di polaroid recentissime, che non lasciavano alcun dubbio sul tipo di corrispondenza intercorsa con Ziozulù. Foto inequivocabili a colori con quelle signore biotte e lui in tutti i suoi due metri e cinque di nudità negroide.

Allora lo zio si è messo a piangere, e credo che versasse lacrime vere, di sincero pentimento, sia pure momentaneo. L’amore per Aida (disse tra i singhiozzi), era sempre vivo e palpitante, ma le pulsioni dell’eros erano in lui così forti e sovrabbondanti che gli occorrevano anche soccorsi esterni. Zia Aida era troppo tranquilla e rispettabile per un uomo di calore africano.

Anche con i geometri, porco dissoluto?, pare che gli abbia gridato allora la zia, scagliandogli contro fotografie, lettere e oggetti vari. Forse avrebbe potuto perdonare i tradimenti veri, ma quell’inganno virtuale era per lei una colpa inaudita, grottesca, irremissibile. Avesse almeno interrotto la corrispondenza dopo aver saputo che la Bionda Viziosa non era una donna.

Chissà che bella quella scenata terribile tra giganti, pagherei per essere stato lì, dice l’avvocato.

Insomma, si sono lasciati. E vi dirò che anche la famiglia ha lasciato Ziozulù. conclude il professore. Una cosa molto penosa, ma la faccenda del geometra era troppo grossa. Io ho seguitato a vederlo di tanto in tanto, come medico. Soffriva soprattutto dell’ostracismo dei parenti. E vi dirò che era molto cambiato, era un’altra persona. Invecchiando era diventato un modello di rettitudine morale.

O uno bravo a darla a bere, un sepolcro negro imbiancato, dubita l’ingegnere.

Un Tartufo nero, rincara l’avvocato.

Non so cosa dirvi, era ingrigito e un po’ingrassato. Negli ultimi anni assomigliava a Nelson Mandela.