Svarianze
Cose
Les choses! Les choses!
J. J. Rousseau, Emile, III
Ho deciso di riunire in una vetrinetta le piccole cose del passato dimenticate in casa, disperse qua e là nel fondo dei cassetti, che si sono raccolte, per così dire, da sole nel tempo, sopravvivendo un po’ casualmente alla dispersione della vita.
L’idea, improvviso flash di consapevolezza, mi è venuta in un grande magazzino, dove si vendeva una scatola di legno rettangolare suddivisa in ventiquattro comparti di pochi centimetri. L’ho comprata subito, e mentre me la portavo a casa cercavo già di immaginare come l’avrei riempita e dove l’avrei collocata.
La scatola non aveva coperchio. Occorreva anzitutto fabbricarne uno, per tenere le cose al riparo dalla polvere. Doveva essere trasparente, perché il contenuto dei comparti fosse sempre visibile, altrimenti sarebbe stato meglio lasciare tutto nel buio dei ripostigli, dove le cose erano rimaste per tanti anni in silenziosa attesa.
Ho costruito una cornicetta con tanto di vetro, anzi no, di plexiglas che è più leggero e resistente, e l’ho congiunta alla scatola con due piccole cerniere d’ottone. Restava da escogitare il sistema di chiusura. In un vecchio negozio di minuterie ho trovato un gancetto, sempre d’ottone, e l’ho fissato su un lato in corrispondenza di un chiodino. Ecco fatto, la teca era pronta.
E qui mi sono venute in mente le cartegloria, quelle tabelle o contenitori incorniciati che una volta si mettevano sull’altare con sopra scritte le parole liturgiche della messa, o nelle quali si esponevano, protette da un vetro, le reliquie dei Santi. Ne ho vista una anni fa a Milano, ad una importante mostra del Neoclassico in Italia. Era una vera e propria teca, con dentro quattordici scatolette disposte in bell’ordine, ciascuna delle quali custodiva briciole di reliquie (probabilmente ex ossibus), appartenute, come attestavano minimi cartigli, a certi Santi o Sante. Al centro della teca spiccava ciò ch’era rimasto di Santa Scolastica e in alto, sopra tutte, decorata da una cornicina d’argento a forma di corona di spine, stava addirittura la capsula di Nostro Signor Gesù Cristo. Non si vedeva bene cosa contenesse la capsa, capsella, scatula, cratula o hierotheca (i nomi per definire queste custodie escatologiche, quasi tutti in latino, superano la quarantina nelle enciclopedie religiose). Non certo rimasugli d’ossa di Cristo, vista la gloriosa ascesa del Salvatore al cielo corpore, anima et divinitate, ma (immagino) residui per contatto, tracce (probabilmente taroccate) di chiodi, del legno della croce o del famoso lenzuolo.
Quei resti che, se autentici, sarebbero stati la più clamorosa ed esaltante presenza nella mostra, erano perfettamente ignorati dalla didascalia del reliquiario. Alla devozione laica dei cultori dell’arte non era additato il contenuto della teca, ma il contenente, la teca stessa, o meglio la sua cornice in bronzo dorato, dovuta ad un raffinatissimo artigiano del primo Ottocento, tale Francesco Righetti.
Ho deciso allora che la mia scatola non l’avrei mai più, nemmeno per ironia, chiamata teca, nome pretenzioso venuto dal greco. Era solo una vetrinetta, la mia piccola e artigianale Macchina del Tempo per rievocare, ricreare memorie.
Dopo averla riempita, l’ho appesa in cucina accanto alla tavola, dove posso guardare in ogni momento della giornata le cose che contiene, distogliendo gli occhi e la mente dalle faccende, dalle scarse letture, dalla televisione, dalle fantasticherie, dalle malinconie. Un’occhiata alla vetrinetta basta anche a farmi gustare meglio pranzo e cena.
Cose eterogenee, che sono riuscito a far convivere in un sito, in un insieme e in ventiquattro sottoinsiemi o classi; cose disparate ma non incongrue, perché unite dal semplice fatto si essere appartenute alla mia famiglia, un microcosmo della mia vita e delle vite che l’hanno preceduta.
Ma è proprio quando mi perdo nelle fantasie e nelle malinconie, che le cose nella vetrinetta mi riportano subito, semplicemente guardandole, ad un’altra realtà, che mi consola. Che sarà pure una realtà traslata, “virtuale”, come si usa dire oggi, consistendo solo di impalpabile memoria, ma che è mia, è lì nelle Cose (d’ora in avanti le maiuscolerò e corsiverò). Realtà fittizia, illusoria, non destinata a far riflettere specialisti in riflessioni e citazioni letterarie, ma che libera me da rimpianti, rimorsi, turbamenti. Io sono lì con loro, con quei piccoli segni sempre comodamente presenti, testimonianze concrete del passato mio e dei miei cari, distribuite nei comparti secondo un certo ordine che mi soddisfa, addirittura mi gratifica e in qualche modo consola.
Ma veniamo finalmente alle Cose. La descrizione procede a serpentina, dall’alto a sinistra in giù e poi in su (tranne l’ultima colonna a destra, dove si comincia dall’alto).
a)
Il primo comparto è dedicato al Cursus honorum. Non mio, s’intende. In verità, mi hanno dato in passato un paio di medaglie per poesiole od altro, ma l’oro mi era servito per ricavarne una collana disegnata da Kiky Vices Vinci (moglie del mio amico pittore Eugenio Carmi), che avevo regalato a mia moglie Laura (ora custodita in cassaforte, non più “Cosa” ma oggetto, impegnativo e ingombrante, raramente esibito da mia nuora Elena).
Non disponendo di personali onori d’alcun genere, né tanto meno materializzabili in piccole Cose, ho riunito qui reliquie portabili di onori attribuiti a mio padre.
La Croce di guerra, innanzi tutto, di cui egli era stato autorizzato a fregiarsi nel 1952 (meglio tardi che mai), per i servigi resi, non volente, alla Patria durante il secondo conflitto mondiale. Egli aveva, da ufficiale sia pure di complemento, giurato fedeltà al re sin dalla prima guerra mondiale, e il giuramento valeva sempre. Non erano previste, a quei tempi, obiezioni di coscienza: il rifiuto a combattere avrebbe comportato il carcere a vita, se non la condanna a morte. A conflitto concluso e, per quanto riguarda noi italiani, giustamente perduto, non c’era molto di cui mio padre potesse sentirsi onorato. Da sempre socialista (mai tralignato in totalitarista) e quindi antifascista, egli era comunque certo di aver saputo conservare decenza e dignità nel corso di una guerra di cui conosceva bene l’ingiustizia, e questo gli bastava. Particolare divertente e contraddittorio: la Croce è siglata con l’RI intrecciatodella Repubblica Italiana, la quale riconosce, quindi, il valore degli atti compiuti da mio padre in guerra sotto una monarchia fellona e cacciata.
C’è ancora nel comparto il distintivo da portare all’occhiello della giacca (non so come meglio definirlo) di Cavalier Ufficiale al Merito della Repubblica, onorificenza conferita a mio padre nel 1953. Questa sì, mi ricordo, gli aveva dato onore.
Ho aggiunto anche due medaglie commemorative, forse d’oro o più probabilmente placcate (una l’ho evidenziata su apposito cavalletto da me costruito), consegnate ai “Padri Costituenti” o ai loro discendenti per il quarantennio dell’entrata in vigore della Costituzione, il 1 gennaio 1948. Di mio padre deputato conservo un intervento all’Assemblea Costituente, che contribuì a definire le norme per impedire la restaurazione in Italia di Casa Savoia, i cui membri maschi, trascorsi cinquant’anni, hanno tentato di riportare tra noi la loro mediocrità supponente. Ricevetti io le due medaglie, nel 1988 a Venezia, dalle mani del presidente della Camera dei Deputati Nilde Iotti, elegante nel suo abito blu a bolli bianchi. Ho, in un cassetto, la fotografia ricordo.
C’è un’altra medaglia (d’argento), consegnata a mio padre come “artefice” delle Giornate Mediche Internazionali, tenute a Verona nel 1949, presenti i premi Nobel Gerhard Domagk e Victor Fleming, scopritori rispettivamente dei sulfamidici e della penicillina.
Ultima Cosa, la Croce di Cavaliere dell’Ordine dello Gnocco. Fu consegnata con finta serietà a mio padre in occasione di un carnevale di Verona (chiamato appunto nel mio dialetto el Carneval del Gnoco), nella sua qualità di sindaco di una città che i dépliant turistici si ostinano a spacciare per sorridente. E che allora, forse, lo era davvero.
b)
Segue lo spazio del Tempo, occupato da tre orologi. Il più piccolo lo comprai in Svizzera negli anni ’50 per Laura, non di grande marca (i soldi erano pochi), ma elegante, moderno. Quello grande è l’orologio a cipolla di mio nonno paterno Marco Tullio, probabilmente un omaggio di colleghi postelegrafonici in occasione della sua “messa in quiescenza”. E’ uno Zenith a doppia cassa d’argento del tipo “ancre”. C’è poi il residuo del Tissot, dono per le mie nozze di Guido Zangrando, mio capo redattore all’ufficio ANSA di Verona e mio testimone.
Sento la mancanza di altri due orologi da polso. Uno è (era) un Longines (il suo design oggi sarebbe modernissimo), donatomi per la Prima Comunione dal mio padrino cavalier Carlo Ferrario, quello della famosa drogheria veronese di Via Rosa, padre del dottore (in chimica) Nino, compagno di scuola di mio padre. Lo abbandonai purtroppo a Verona lasciando la città, e quando si guastò fu inesorabilmente eliminato da mia suocera Lietta, amante di Ordine e Pulizia. Il quinto era un elegantissimo Omega d’oro regalato a mio padre da una ricca cliente-amica, a compenso di consulenze legali prestatele (naturalmente gratis). La mamma aveva sostituito anni dopo la cinghietta di cuoio rotta con una d’oro massiccio. Portava lei, nelle grandi occasioni, il cimelio-ricordo del marito defunto. Passato a me, lo portai io per qualche anno, ma finii per perderlo stupidamente su un treno regionale, quando non ritirai abbastanza in fretta il polso dalla chiusura automatica di uno sportello. Sceso dal treno dopo pochi minuti alla fermata successiva, tornai indietro a piedi a cercarlo invano lungo le rotaie. I tre orologi superstiti sono fermi sull’unica ora che meriti d’essere fermata: le cinque in punto. Ovviamente, della sera.
Sullo sfondo del comparto, visto che il Tempo è Denaro, ho collocato un biglietto da Una Lira emesso nel 1943 dall’Amministrazione Militare Alleata nella parte dell’Italia già liberata da fascisti e nazisti. Sul retro si leggono (in inglese) le “quattro libertà” fondamentali dell’uomo: di parola, di culto, dal bisogno, dalla paura. Bah.
c)
Se il tempo è denaro, cosa accade alle Monete fuori corso, metafora di tutto ciò che fatalmente, a dispetto della tenacia, della laboriosità e delle quattro libertà, finisce per scadere? Vengono bruciate se di carta, o fuse se di metallo. Tranne le poche che s’ammucchiano in cantucci come la mia vetrinetta o nelle collezioni di chi sa veramente metterle assieme (e trasforma magari in altro denaro valido il tempo impiegato a collezionarle). Sullo sfondo campiscono nel piccolo spazio le Due Lire di carta degli anni Cinquanta, un rettangolino di centimetri otto virgola tre per quattro virgola sei. Valevano pochissimo anche quando vigevano, tanto che di una cosa comprata per niente si diceva: ” l’ho avuta per due lire”. Ho raccolto qui anche qualche spicciolo, i Centesimi, le Cinquanta, le Cento, le Duecento e le Cinquecento Lire in circolazione prima dell’Euro e una banconota da Mille, scaduta da anni, con la faccia di Giuseppe Verdi. L’ho trovata mentre cercavo le Cose da collocare nella vetrinetta. Era nell’ultimo borsellino di Laura, non aveva fatto in tempo a spenderla. Ho aggiunto anche le Mille Lire di carta con la Montessori. La mia prima intenzione era stata di lasciarle al caffelatte di un povero bambino dei mondi inferi o alla ricerca sul cancro, sostituendo l’originale con una copia. Ma avevo poi scoperto che le fotocopiatrici non possono riprodurre a colori la carta moneta. Allora ero ricorso al più semplice degli espedienti simbolici: calcolato l’importo complessivo delle lire e dei centesimi sistemati nello scomparto (escluse le monetine fuori corso da tanti anni, ancora con la capoccia del re), l’avevo raddoppiato lasciando una somma corrispondente in Euro, arrotondata in eccesso, nella scatola che raccoglieva all’edicola del mio giornalaio i soldi destinati alla beneficenza. Avevo fatto ‘sto piacere a Sofia Loren che lo chiedeva alla tv e mi ero salvato da ogni esubero di rimorso. Tra le monete ho infilato anche la ricevuta del mio primo pagamento in Euro (1,62), del 2 gennaio 2002.
Di monete vecchie avrei potuto aggiungerne altre, pescandole tra quelle conservate in un sacchetto gonfio, frutto di uno dei miei conati di collezionismo casuale. Ma ho regalato tutti quei denari scaduti (dopo averli riordinati, lucidati e suddivisi in apposite buste trasparenti, secondo gli stati e gli anni di emissione), alla mia nipotina Lauretta, che aveva una volta manifestato curiosità, mi auguro meno effimera della mia, per l’ennesima raccolta da me mancata.
Tra le vecchie monete donate a Lauretta c’era anche un grande Tallero d’argento di Maria Teresa, portatomi da uno zio materno, Gennaro, reduce dalla campagna in Africa Orientale. In Etiopia, negli anni Trenta, il ritratto settecentesco dell’imperatrice d’Austria aveva ancora valore di scambio. Altra reliquia interessante che ho segnalato a mia nipote è il cartoncino rotondo con sopra incollato un francobollo, moneta corrente in Spagna al posto delle pesetas, durante la guerra civile. Era il regalo di un altro zio materno, Bepi, tornato senza un braccio dall’aver combattuto con i franchisti, dalla parte vincente (ma per me, e per non pochi altri, sbagliata).
d)
Ecco la Vita militare, ancora con ricordi paterni della seconda guerra mondiale: una stelletta; un proiettile, probabilmente di un Mauser tedesco della Wehrmacht; la piastrina di riconoscimento di ufficiale e il distintivo dorato della Divisione Pasubio, costituita nel 1940 a Roma, a dispetto del nome veneto, e finita distrutta in Russia. Per quell’esordio laziale i militari fondatori non si erano lasciata sfuggire l’occasione di fregiarsi con la lupa e i gemelli, il simbolo più retorico, e in questo caso meno pertinente, della Romanità. Purtroppo, ho perduto una pallottola cal. 7,65 del fucile “made in Italy” modello Carcano 91/38 (famoso perché ne trovarono uno, ma con canna modificata di calibro inferire, appoggiato sui libri al sesto piano del “Texas School Book Depository” a Dallas, quando uccisero il presidente Kennedy).
Della prima guerra mondiale, alla quale mio padre partecipò come sottotenente di fanteria, non mi sono rimasti oggetti di dimensioni adatte. Nella vetrinetta non ci sta il portasigarette di legno intagliato con la scritta “Somorja” in cirillico, ricordo donatogli da un compagno slavo tra i reticolati della sua lunga prigionia in un campo sulle rive austro-ungariche del Danubio (ora ce l’ha Zeno nel suo studio). E non ci stanno nemmeno gli speroni da maggiore di complemento, che mio padre si doveva allacciare sui gambali, durante la seconda Guerra Mondiale, a simbolizzare la presenza di un inesistente e obsoleto cavallo, di spettanza ipotetica ai signori Ufficiali Superiori (e che lui, comunque, non avrebbe saputo cavalcare). Gli speroni ci sono ancora, riposti in una scatola, e mi meraviglio che siano in coppia, perché il maggiore distratto se li infilava male e ogni tanto, camminando, ne perdeva uno.
Ho depositato qui anche gli anelli nuziali del papà e della mia cara mamma (l’unica Cosa piccola che mi sia rimasta di lei, a parte le fotografie e le tante lettere scritte con la sua bella calligrafia). Mi sembra che la casella “militare” sia la più adatta per le fedi matrimoniali (“poi, donatogli un anello / sacro pegno di sua fe’…”). Sono di platino e hanno una storia. Quando, durante la guerra mussoliniana, venne il momento di donare l’oro alla Patria in un clima di generale e irrazionale consenso al fascismo, che bollava d’infamia ogni diversità di pensare (tanto più se manifestata da una famiglia “diversa”, di antifascisti un po’ ebrei), parve ai miei opportuno – per evitare grane ‒ di partecipare alla rappresentazione. Offrirono pubblicamente il loro anello durante una solenne cerimonia collettiva organizzata in Piazza dei Signori, e poi se ne fecero fare un altro, forse più prezioso ma non del colore dell’oro. Un espediente all’italiana seguito, pare, da tanti anche non antifascisti.
Ho aggiunto un piccolo cappello da alpino, preso da un souvenir turistico di Gressoney, che non ha niente a che vedere con mio padre e con le guerre. E’ un ricordo della mia passione per le passeggiate in montagna, ma anche del mio colpevole passato di “avanguardista pre-alpino”, nell’Era Fascista. Una mascherata, d’accordo, studiata per creare tra bambini e ragazzini la “coscienza littoria”, quello spirito d’aggregazione soldatesca e pseudo-guerresca, che sciaguratamente funzionava così bene anche tra gli adulti. Ma confesso che mi piaceva, il sabato pomeriggio a Verona, dopo la noiosissima adunata, pavoneggiarmi nel passeggio sul Liston con la divisa grigio-verde pesante (anche d’estate), gli scarponi, i calzettoni bianchi rimboccati e il cappello (senza penna), simulando un lento passo alpestre. Un’abitudine che abbandonai presto, quando potei entrare, verso i sedici anni, nel gruppo del Teatro sperimentale diretto dal futuro capo partigiano e poi regista e mio caro amico di giochi Gianfranco De Bosio. Facevamo le prove proprio il sabato, sottraendoci così alle adunate.
e)
Il seguente è lo scomparto dei Sigilli. Dovrebbe simbolizzare la vita di lavoro di una famiglia piccolo-borghese di tradizione socialista ma che non ha mai proletariamente lavorato né di picco e pala né di falce e martello.
Qui è custodita la reliquia forse più antiquata della mia famiglia, il sigillo per ceralacca del mio bisnonno Vita Fedeli, commerciante in pellami. Le iniziali svolazzanti V F ignorano l’M del suo primo nome, che secondo le carte era un eloquente, ebraico Moisé. Saltando i nonni, di cui non mi restano ricordiné piccoli né grandi, se non poche fotografie, che chissà perché non considero Cose, ho inserito il blocchetto di metallo che serviva a stampare in rilievo la carta da lettere di riguardo di mio padre avvocato.
Non poteva mancare nel comparto un mio biglietto da visita, ritagliato per farcelo stare. Non dichiara nessuna delle mie illusorie attività professionali, ma la mia vera qualifica di artistoide.
Sul fondo, la grande medaglia commemorativa del centenario della Cassa di Risparmio di Verona (1825-1925). L’ho inserita qui avendola sempre vista, nella stanza di casa nostra che chiamavamo studio, sul tavolo “fratino” che ora è la scrivania di lavoro di mio figlio Zeno. Nel 1922, all’avvento del fascismo, tre anni prima del centenario della banca, mio padre socialista fu gentilmente ma fermamente pregato di lasciare il consiglio di amministrazione della Cassa, del quale era entrato a far parte venticinquenne, giovane promessa da allora accantonata per vent’anni. Gli donarono però, tre anni dopo, la patacca della ricorrenza.
Altra Cosa, non famigliare ma egualmente evocativa del lavoro di scartoffie: un tampone in miniatura per asciugare l’inchiostro, che faceva parte di un minikit per bella calligrafia, regalo kitch e inutilizzabile se non come simbolo malinconico d’un’arte che non c’è più.
A proposito di fotografie, forse non è esatto che io non sappia perché non le penso come Cose: dev’essere per la stessa ragione che induce i cervelloni che si occupano di fenomeni e segni a sostenere che in quei rettangoli di carta, realtà allo stato passato, la cosa sta dentro l’oggetto.
f)
La casella successiva è dedicata all’Agone (niente intellettualismi, è solo roba sportiva). C’è la medaglia ricordo di una gara di tiro a segno per ufficiali dell’esercito italiano. Non è datata, ma siccome sul verso porta la faccia autoritaria di Umberto I, spacciato per il “Re Buono” nonostante le cannonate di Bava-Beccaris, deve risalire al periodo che va dal 1878 alla pistolettata dell’anarchico Gaetano Bresci a Monza, il 29 luglio 1900. Ignoro da dove venga questa medaglia, che mi è cara perché risale all’epoca di mio nonno paterno, nato nel 1869. Gara di tiro a segno non per lui, che fu solo sottufficiale durante il periodo di leva (beato lui, non dovette fare nessuna guerra, ma solo Grandi Manovre).
Altra medaglia trovata in casa, e di incerta origine, è di un’associazione sportiva di Trento, per una competizione regionale svoltasi nel 1927. Ho infilato qui anche il distintivo di socio vitalizio del Touring Club Italiano, al quale mi aveva iscritto il nonno negli anni Trenta. Nel dopoguerra, trascurai di pagare la quota di aggiornamento e così decaddi dalla condizione di associato a vita. Ancora me ne dolgo, ogni volta che sento il bisogno di una guida turistica a prezzo scontato.
Tre ulteriori medaglie sono legate a miei ricordi. Una attesta la mia partecipazione ad una gara di nuoto nel 1950 (arrivai secondo in una batteria stile libero). Le altre due sono grosse patacche commemorative della Mille Miglia, del ’49 e del ’50. La prima fu vinta su Ferrari 2400 da Clemente Biondetti (che aveva trionfato anche nel ’48). Nel ’50 prevalse il conte Giannino Marzotto, figlio dello straricco tessitore di Valdagno.
Sfiorai a Brescia per qualche anno, due giorni ogni anno, il mondo mitico delle corse automobilistiche e dei piloti, che a quei tempi non risplendeva ancora di mondanità eccitata, ma puzzava più che altro di officina meccanica. Furono tra le mie prime corrispondenze giornalistiche. Vidi piloti famosi di cui non rammento il nome, non Tazio Nuvolari, che aveva gareggiato le sue ultime Mille Miglia nel ’47 e ’48, ma era stato tradito, a un passo dalla vittoria, da guasti alla macchina. I guai meccanici o al circuito elettrico o di raffreddamento erano le cause più frequenti dei ritiri. Mi ricordo, sarà stato nel ’50, che mentre stavo scrivendo il mio pezzo in sala stampa, a Brescia, entrò un corridore, non so più chi, con la tuta sporca di grasso e la faccia impolverata tranne gli occhi protetti dagli occhialoni da corsa. Senza dire una parola posò sul grande tavolo un corto manicotto di gomma, responsabile della sua débacle, e uscì.
Nuvolari lo avevo conosciuto prima, verso la metà degli anni Trenta, a Boscochiesanuova, dove le nostre famiglie passavano l’agosto in villeggiatura. Tazio era già una leggenda. Giocavo con uno dei suoi due figli, un brunetto silenzioso con la testa rotonda rapata quasi a zero (chissà se era Giorgio o Alberto: entrambi i ragazzi morirono pochi anni dopo). Un giorno Nuvolari uscì dalla sua villa, elegante in un completo principe di Galles. Abbronzato e sorridente con i suoi dentoni, mi invitò a fare un giretto sulla prima Fiat 1500 “aerodinamica” che avessi visto. Il breve tragitto prudente lungo i tornanti di montagna, pur senza i famosi e audaci dérapage, mi lasciò per una settimana estasiato.
Andai anche ai funerali di Nuvolari, a Mantova nel ’53. Ricordo che sulla facciata della chiesa avevano messo un cartello con la scritta: “Correrai più veloce per le vie del cielo”, una citazione biblica di cui una volta sapevo la fonte esatta.
Ultimo ricordo sportivo, la valvola che avvitavo sulla pompa della bicicletta per gonfiare il pallone delle mie partite di calcio infantili.
g)
Ho collocato qui la punta fratturata di un proiettile contraereo caduto nel giardino di casa nostra a Verona durante uno degli ultimi terribili bombardamenti che devastarono la città nel 1945. Più d’una bomba cadde a pochi metri dalla cantina in cui erano rifugiati i miei. Le esplosioni fecero crollare il soffitto di una stanza. Mi ricordo che provvidi io a pagare (il papà era stato nominato sindaco dal CLN, ma non aveva una lira), i lavori di ripristino, con le 5000 lire avute come liquidazione per la mia trascurabile militanza nella 14.ma divisione partigiana “autonoma” in Piemonte, con la quale partecipai, come attesta una carta, alla “liberazione di Casale Monferrato e di Torino” (non ho mai sparato un colpo).
h)
Le Cose d’amore occupano subito dopo ben due caselle. Erano in buste, portafogli, borsette, e in una scatoletta rosa alla quale Laura teneva molto. Vi ho trovato: la conchiglia da lei raccolta sulla riva del lago di Garda in un giorno felice, sulla quale aveva annotato “Desenzano 17 agosto 1949” (a Desenzano la sua mamma insegnava lettere al ginnasio e ospitava noi morosi in una romantica torre); la bustina vuota di fiammiferi Minerva con una frase d’amore che le avevo scritto; un pezzo di nastro di carta da telescrivente dell’ANSA su cui avevo perforato un “ti amo”; la forcina in finta tartaruga usata per fermare i suoi bei capelli; lo spillone dorato che termina a forma di cuoricino in pietra verde; il biglietto da visita congiunto con il mio nome e quello di Laura, usato per ringraziare dei regali matrimoniali e per altri convenevoli; il flaconcino di “Chanel n. 5”, un mio goffo dono retour de Paris, che l’aveva tanto commossa. C’è anche un altro piccolo cuore di vetro rosso con sovrapposte in bianco le nostre iniziali, fuso al momento negli anni ’70 su un banchetto degli “Oh bei oh bei” alla fiera milanese di S. Ambrogio.Mentre lo sistemavo nella vetrinetta mi è caduto rompendosi e l’ho lasciato così, un cuore infranto in tre pezzi.
i)
Il secondo comparto delle Cose d’amore ne custodisce alcune delle ultime che Laura, andandosene, aveva lasciato sul comodino, in bagno, nelle borsette, sul tavolo da lavoro, e che vent’anni fa avevo chiuso alla rinfusa in una scatola da scarpe. L’ultimo rossetto per le labbra; il pennellino di pelo di martora che le serviva per sfumarsi sul viso un accenno di trucco da elegante bionda acqua e sapone; il piccolo strumento da manicure (ho controllato, è simile a quello chiamato “spingipelle”), che lei usava non per le pipite ma per rifinire alla perfezione i suoi collages di jeans. E anche una scatolina laccata in nero con delicati fregi dorati. Sul coperchio c’è la miniatura d’una scena favolosa, ispirata ad una leggenda poetica comune a molti popoli nordici e orientali, narrata in particolare dai Burati, mongoli della Siberia meridionale. In un bosco, un cacciatore dal principesco abito rosso a grandi fiori d’oro siede su un tronco accanto alla riva di un lago. Tiene un paio d’ali candide sotto il braccio destro, come a volerle celare. Una bellissima fanciulla ignuda nuota davanti a lui, sollevando armoniosi spruzzi. Ho facilmente scoperto, consultando dizionari di simboli, origine, retroscena ed epilogo della storia. La ragazza è una donna-cigno, che si è spogliata del mantello di piume prima di entrare in acqua. Il cacciatore ha nascosto l’abito e la fanciulla non può più riprenderlo per volare. Così finisce per sposare il giovane, al quale darà ben diciassette tra figli e figlie. Alla fine, però, riprenderà la veste alata e volerà via. Non senza aver chiesto all’addolorato marito di celebrare ogni anno con una festa, in primavera e in autunno, il passaggio degli stormi di cigni migratori. Rigenerazione e morte provvisoria della Natura, miti, leggende, favole tanto saccheggiate dai poeti che avevano letto Il ramo d’oro e tutte le altre storie raccolte e interpretate da etnologi materialisti e da antropologi formalisti, oggetto di infinite discussioni, messe a punto e messe al bando. Scrutando l’immagine con la lente, si vede che il cacciatore ha gli occhi spalancati di sorpresa per l’apparizione della fanciulla che nuota, ed è chiaro che è stato colto da improvviso innamoramento. Si vede anche la firma del miniaturista, in caratteri cirillici, e la data di fattura: 1966. Un oggetto che non ricordavo, un regalino probabilmente portato con qualcosa dentro da un mio viaggio di lavoro nella Russia ancora sovietica.
Il racconto della ragazza-uccello non può non rimandarmi a Tchaikowsky e al suo Lago dei cigni, che sembra però ispirato ad un’altra leggenda, stavolta germanica. Il folklore è pieno di bellissime ragazze soprannaturali che visitano la terra e si innamorano di un mortale. E la storia del balletto romantico palpita di Giselle, Ondine, Silfidi, Odette e Odile incantate e pronte a trasformarsi.
Dalla scatoletta di lacca spuntano ancora due Cose: un affusolato ditale d’argento decorato con fiori in rilievo, per proteggere dalle trafitture mani intente a chissà quali sortilegi, oltre che a lavori di filo (ma scherzando con l’ago, intanto, le cucitrici “le se ponse el cor”, dice un bellissimo verso di un poeta delle mie parti), e una bottiglina contenente una luccicante polvere color turchese, che evoca altre fiabe, magie, lustrini, feste immaginarie.
l)
Nel comparto dei Bambini ho riunito una scarpetta di pelle bianca, la prima portata da Marco (e poi da Zeno). Accanto, un minuscolo pilota seduto, in tuta rossa e casco verde, le braccia protese verso l’invisibile volante di una macchinina da corsa finita chissà quando nel limbo dei giocattoli rotti. E ancora una bustina con i denti di latte dei bambini e un frammento di carta con sopra un cuore rosso (disegnato da Zeno), che porta sul retro la scritta incerta: “PER LA MIA Ma mamma”.
m)
Nella casella successiva, dedicata a prima del diluvio, tre delle quattro Cose che contiene dovrebbero dire la malinconia della scomparsa, parlare di tempi irrimediabilmente andati. C’è il fossile prediluviano del trilobite, il primo vero predatore. Sopravvissuto a due grandi estinzioni, gli fu fatale la terza nel Permiano, duecencinquanta milioni d’anni fa. Lo comperai in Marocco, dove ne espongono a cestate nei suk.
Non milioni, ma una manciata d’anni sono bastati a rendere antidiluviane altre due Cose: il vecchio distintivo del Partito Socialista Italiano (falce, martello e libro) di mio padre e un reperto dei “fatti di Genova” del luglio 1960. Lo raccolsi in Piazza Dante tra i resti della sassaiola, frammenti d’asfalto, di marciapiedi, di fioriere, di tombini divelti per protestare contro la polizia, il governo Tambroni, democristiano di destra, e contro il tentativo dei neofascisti (allora li chiamavano così, e lo erano) di tenere il congresso del Movimento Sociale a Genova.
La Grande Estinzione degli anni Novanta ha cancellato le idee (o ideologie) che queste due Cose rappresentavano? O tali idee riusciranno, auspicabilmente, a sopravvivere con successo e con qualche aggiustamento, come pare sia spesso accaduto in natura a tanti organismi, sospinti nel futuro (per caso o per fortuna) dalle pulsioni della vita, da un’interiore ostinazione all’identità?
La quarta cosa l’ho aggiunta più tardi: è una piccola bella pietra (Rossella mi assicura che è una corniola), certamente antidiluviana ma sistemata qui, lo confesso, solo per sfizio estetico. Il suo bel colore rosso-arancio sta bene contro il verde del reperto sassaiolesco genovese.
n)
Altra creatura di un’era antidiluviana forse immaginaria e/o bufala appare nel comparto seguente. E’ il Mostro di Lockness in quattro pezzi di ceramica, souvenir d’un viaggio nella Scozia misteriosa, quando accompagnai Marco (allora presidente nazionale degli arcieri italiani da campagna) e Zeno al campionato mondiale di tiro con l’arco, nel lontano 1986. L’animalaccio sembra sorgere con le sue terrorizzanti volute dalle acque (in realtà emerge dal legno della vetrinetta, su cui s’appoggiano le sezioni che lo compongono).
Per aggiunta d’ironia ho collocato qui il residuo d’un burattino a forma di testa di germano (Anas platyrhinchos), sempre di ceramica. Il collo, d’un verde curiosamente identico a quello del serpentone, emerge accanto al mostro, e le dimensioni fuori scala creano (sostengo io), un effetto spiazzante.
Ancora due animali simbolici o, meglio, due stereotipi scozzesi si affacciano in questo comparto e accrescono lo spiazzamento dimensionale. Sono la pecora bianca, nera di muso, di orecchie e di zampe (forse una Black-face?) e il cavallo bianco che galoppa nell’etichetta dello scotch White Horse.
o)
Viene ora il comparto delle Credenze, con una sintesi delle tre religioni monoteiste rivelate. Il cristianesimo (anzi, il cattolicesimo della Chiesa di Roma) è rappresentato dalla medaglia, debitamente elevata su cavalletto, della mia Prima Comunione nella parrocchia di San Giorgio in Braida, a Verona. C’è poi il cosiddetto “più piccolo libro del mondo”, custodito in un minicontenitore in plexiglas. Nel librino è stampata la preghiera del “Padre Nostro”, valida per tutta la cristianità. E’ leggibile solo con l’ausilio di un lentino contafili pieghevole da dieci ingrandimenti. Libro e lentino mi furono regalati dal tipografo Lang di Genova, abituale fornitore della società Italsider, per la quale lavorai nella prima metà degli anni Sessanta.
Conservavo anche il lentino, ma purtroppo l’ho smarrito. Lo tenevo nel borsetto da toilette che porto nei miei viaggi. Strumento sempre utile per vedere bene la spina nel polpastrello e per tutte le necessità microscopiche, mentre mi lasciavo (e séguito a lasciarmi) sfuggire, nel frattempo, travi ed altre macroscopiche evidenze.
Le religioni ebraica e mussulmana sono paradossalmente presenti in un’unica Cosa. E’ un pendaglio che raffigura in due versioni, a due e a tre dimensioni, la mano di Fatima, la figlia di Maometto venerata specialmente dalle sette sciite. Sulla manina piatta è incisa un’iscrizione in caratteri ebraici. Me la regalò Lele Luzzati, di ritorno da una visita alla sorella, che viveva in un kibbutz in Israele. La presenza di quelle parole (pro Allah o pro Jahvè? prima o poi chiederò a qualcuno di tradurmele), la dice lunga sull’inestricabilità di due religioni, e di due popoli cugini in Abramo, conviventi nell’esiguo spazio israeliano, a dispetto degli integralismi e dei falchi di entrambe le fedi.
p)
Altra casella, altre Illusioni. C’è qui il fermacarte di vetro che, guardato dall’alto, pare un praticello fiorito dentro una bolla d’acqua. A me, anzi alla mia golosità irrefrenabile, quei fiori di variopinta pasta vetrosa ricordano certe caramelle che si vendono sui banchetti alle fiere e che, solo a guardarle, mi fanno pavlovianamente venire l’acquolina in bocca.
E’ illusione anche la spilla rotonda con dentro una piccola natura morta di rose? Sono rose, sono rose, sono rose, sono rose alla Gertrud Stein, o no? Ulteriore illusione, tecnologica questa, il portachiavi d’argento che mi regalarono a Caorso negli anni Settanta, quando andai a visitare la centrale atomica, chiusa poi per referendum (anch’io avevo votato contro). Si riaprirà? Qualche rivista scientifica s’avventura a parlare di “rilancio” e di processi nucleari “puliti”. Temo che siano, anche queste, nuove e pericolose illusioni.
q)
Il comparto successivo dovrebbe evocare il Mondo marino, che ha finito per occupare la maggior parte degli anni della mia vita (più di 50 anni in Liguria, senza contare i due a Stromboli!). Vi ho infilato dentro un galleggiante per reti da pesca e un sasso grigio raccolto a Camogli. Come tanti sassi su quella spiaggia, è attraversato da una sottile linea bianca. Vi ho scritto sopra in bella calligrafia, come se seguissi la riga di un quaderno, la ridondante parola “sasso”.
Indispensabili, in questo quadretto, altre conchiglie. Due, residui delle tante raccolte sulle spiagge dai bambini e poi buttate via per oppressione da moltitudine, sono valve di piccoli lamellibranchi che ricordano la classica conchiglia dei distributori Shell d’una volta. La terza, guscio di una lumaca marina (forse il nome scientifico è Monodonta Turbinata, ma non sono tanto sicuro, e poi, a chi importa?), me l’ha regalata la signora Maria della cooperativa pescatori di Camogli. E’ d’obbligo immaginare di appoggiarla all’orecchio per sentire la voce illusoria del mare, con pesesillos de sombra y luz.
r)
Ancora illusioni più su, nei Fiori finti, che ho allineato ai due comparti delle Cose di Laura. Rose rosse e rosa di seta e una rosellina di ceramica. Sul fondo, una finta foglia di quercia ritagliata in una tela verde, con la consueta precisione, pronta per uno dei bellissimi collages che Laura non fece in tempo a ultimare.
s)
La fanciulla e l’angelo è il tema di questa casella. L’angelo è in realtà un “genius” e viene dalla mitologia e iconografia greco-romana. E’ lo spirito buono, il “doppio”, la voce segreta della coscienza, che accompagnava ogni mortale, vegliava su tutta la sua vita e moriva con lui. Il genio guardiano dei pagani era rigorosamente maschile (ancora nessuna medievale disquisizione, allora, sul sesso degli angeli). Le donne non avevano diritto a una geniessa, gli doveva bastare e avanzare quello col pistolino. Era insomma lo spirito che poi divenne, per sincretismo, l’angelo custode, trasferito a ciascun cristiano completo di ali ma assolutamente senza pistolino, pudicamente vestito e reso immortale.
Il genius del comparto è ispirato all’iconografia kitch pompeiana e tiene fra le braccia un delfino, animale sacro a Nettuno, veloce simbolo delle acque nonché della rigenerazione, della saggezza, della prudenza e di varie altre buone qualità. Non ricordo da dove venga questo genio. Credo che Laura l’abbia trovato da un robivecchi, mescolato a tanti altri ”amorini”.
Quanto alla fanciulla, ritratta in una fibbia, non potrebbe essere più fanciulla di così, e batte di molte lunghezze per angelicità il genius maschio. Delicata immagine femminile, si rifà chiaramente ai modelli inglesi del Liberty. Basterebbe sfogliare qualche buon catalogo per ritrovare l’origine di questa figurina. A me ricorda anche certe bellissime illustrazioni del libro sulle “Fate”, degli immancabilmente britannici Brian Froud e Alan Lee. Abitano (o abitavano?) in Cornovaglia, contea di Devon. Sono troppo bravi, sospetto che siano (o fossero?) un po’ gay.
t)
Il Cigno riappare da protagonista nella casella seguente, stavolta non più in forma femminile come nella leggenda siberiana narrata dalla scatoletta di lacca, ma sotto specie di maschio eccitato, placcato in argento. Sotto le cui sembianze il furbo Zeus sarebbe riuscito a farsi la bella Leda, moglie di Tindareo, re di Laconia, che per sfuggirgli si era invano trasformata in oca.
Sorvolerò sul corpus di interpretazioni dotte che riempiono per pagine e pagine i testi di mitologia e di etnologia. Porrò invece una domanda: che sarebbe successo se, al posto di un’eccitante Leda-oca, ci fosse stata la donna-mostriciattolo di plastica che ho surrettiziamente accostato all’uccello? Zeus-cigno si sarebbe dovuto rassegnare alla sua funzione di simbolo ermafrodita (come sostengono Wolfango Goethe e Gaston Bachelard), provvedendo a sfogare in modo autarchico le sue frustrate brame. E, allora, addio Leda di Leonardo dagli armoniosi e accoglienti lombi carezzati da bianche ali, addio copule michelangiolesche con baci becco-bocca, addio figliolanze nate da uova (i gemelli Dioscuri ed Elena). E, conseguentemente, addio Iliade e Odissea, addio Schliemann.
Ho scoperto che questa leggenda piaceva pazzamente a quel paranoico morfinomane di Goering. O meglio, al vice-Hitler, collezionista predatore, piacevano le sue rappresentazioni nei preziosi quadri dei grandi artisti come il Tintoretto, di cui aveva “acquistato”, appunto, la Leda con cigno.
Il piattino a fiori che ho posto dietro il cigno e il mostriciattolo-femmina è, come tutti i piattini del genere, puramente decorativo.
u)
Qui sono rappresentate le Città. Il boccalino di birra è il ricordo di una gita a Heidelberg, dove i luoghi di studio e di lavoro convivono strettamente con le birrerie e i ristoranti, come in tutte le città tedesche o dell’ex impero austro-ungarico. Nei palazzi c’è spesso un ingresso unico per la Bierhaus, la facoltà universitaria o il municipio. A Praga, per esempio, in via Celetnà, c’è la sede della facoltà di pedagogia e filosofia con tanto di targa in bronzo e, sopra il portone, un enorme stemma barocco con l’aquila bicipite. Ma sotto, appoggiato al selciato, campisce un altrettanto grande pannello di legno con l’insegna (bevitore che brinda) della birreria-ristorante U Bakalare e il menù con i prezzi. Vi si accede direttamente dall’atrio, tra profumi di dolci appena cotti. E in fondo, oltre una grande porta vetrata, una normale aula coi suoi banchi e la cattedra per il docente, senza la minima soluzione di continuità. Nessun rigore ipocrita come da noi, che separiamo la ristorazione e gli altri momenti del tempo libero dalle attività “serie”, dalle carriere e dagli affari. E sono solo ovvie finzioni, sostenute dalla generale omertà.
Altre due Cose parlano di città. Sono medaglie ricordo di congressi ai quali partecipò mio padre. A Ginevra si tenne, nel settembre 1949, la Conferenza internazionale delle Città, organizzata da qualcuno che pensava già all’Europa unita, se non delle Patrie o delle Nazioni, almeno dei Comuni. A Strasburgo, invece, nel 1950, vi fu il primo Congresso dell’Unione delle Fiere Internazionali, al quale non poteva non essere presente il rappresentante della città di Verona e della grande Fiera dell’Agricoltura e dei Cavalli.
Manca, è andata persa, la medaglia ricordo di Bingen, cittadina della Renania-Palatinato fondata da Claudio Druso il Germanico nel 13 avanti Cristo, famosa non solo per i suoi vini, che trasformano l’acqua del Reno in nettare, ma anche per essere la patria di Santa Ildegarda. Che fu insigne teologa medievale nonché autrice di molte ricette culinarie fondate sulle proprietà curative naturali di certi alimenti, oggi tornate in voga. All’insegna delle comuni origini romane e del buon bere, Bingen si gemellò agli inizi degli anni Cinquanta con Verona e nominò mio padre cittadino onorario.
v)
A questo comparto ho assegnato il concetto delle Associazioni di idee, inventate dai miei prediletti empiristianglo-scozzesi.
Confesso che l’Arena di Verona è presente qui solo perché delle dimensioni giuste per starci. Avrei preferito metterci, se avesse avuto le misure adatte, la mano di plastica che tiene sul palmo, assieme all’Arena, anche Giulietta e Romeo. Una volta la tenevo esposta sulla libreria, parte di un altro mio tentativo fallito di collezione: i souvenir turistici. Ho sovrapposto all’anfiteatro un cagnolino di panno. L’associazione di idee fra la stagione lirica e i cantanti cani che meritano fischi, mi fornì il pretesto per un’intervista, al tempo della mia brevissima carriera di radiocronista, nel 1952. In occasione di un concorso riservato ai cani di razza, che si teneva in Arena, mi venne l’idea di portare davanti al microfono un bastardino che cantava. La bestiola era stata addestrata ad emettere abbaii e mugolii corrispondenti a note diverse, secondo il modo in cui il padrone gli piegava (o torceva) le zampe. L’esecuzione, pietosa e un po’ crudele, ebbe grande successo radiofonico. Andò in onda in un programma nazionale di interviste comiche e bizzarre che si chiamava La giraffa. La registrazione è sopravvissuta nell’immenso archivio della Rai, ed è stata ritrasmessa a mezzo secolo di distanza in Graffiti, un programma di rievocazione delle voci “più significative” degli anni ’50…Ebbi così la sorpresa di risentirmi giovane alla radio mentre intervistavo il povero cagnetto (e solo riascoltandolo tanti anni dopo mi è sembrato che cantasse, o guaisse, Giovinezza). Ho la cassetta, che mi fu mandata dalla gentile collega romana che dirigeva la trasmissione.
Le proporzioni incongrue del cane e del monumento romano ripetono uno degli effetti più facili che si possano ottenere giustapponendo cose piccole di scala diversa. Ne ho abusato in vari comparti della vetrinetta, anche come rimedio al venir meno, a un certo punto, sia della scelta di Cose da metterci, sia della fantasia. Mi sono dovuto arrangiare con quello che ho trovato.
w)
E’ il momento di Giuochi, Feste, Fortuna. Il cubetto di legno con i punti da uno a sei, immancabile simbolo della sorte e dell’azzardo, il portachiavi col numero 13 e il ferro da cavallo, l’anello con maschera forse azteca (un po’ fuori tema ma era attaccato al portachiavi), la trombetta che soffiandoci dentro fa le lingue, e i biglietti per due posti alla Scala, nel palchetto proprio sopra il palcoscenico. Davano, appunto, Il lago dei cigni, interpreti Nureyev e la Fracci, e quella fu la nostra festa di fine anno 1973.
Ho recentemente aggiunto una divertente Cosa-paradosso, un ossimoro materializzato in una biglia rossa con segnati sopra i sei punti, che non può mai fissarsi su una delle sei facce del dado da gioco perché ha, come tutte le sfere, una sola faccia.
x)
Non poteva mancare l’Avventura, rappresentata da due Cose. Una è la scatoletta cinese di “Tiger Balm”, rigenerante grasso di tigre. La nobile fiera, colta nel balzo, è raffigurata sui due lati del barattolino rosso, con scritte in cinese e inglese. Dal lato cinese la tigre è in rilievo, a garanzia dell’autenticità del grasso e alla faccia del’ecologia e della protezione delle specie a rischio d’estinzione. L’importante, come sempre, è crederci.
L’altra Cosa è un dischetto distintivo regalatomi a una mostra di disegni originali sulle avventure di Dylan Dog. L’eroe, in primo piano, pistola in pugno, è sorpreso mente si volge, con scatto davvero tigresco, verso alcune poco rassicuranti tombe. La scena è sinistramente illuminata da un’enorme luna contro la quale si stagliano le rovine di un castello. Nel cielo minaccioso svolazzano uccellacci notturni. Non c’è la firma dell’autore.
Allargando una definizione che Hitchcock riservava agli attori, anche i disegnatori di Dylan (e un po’ di tutti i fumetti), sono “bestiame intercambiabile”: i loro nomi sono noti solo a pochi amatori e specialisti. L’unico che tutti ricordano e citano in proposito è Tiziano Sclavi, non disegnatore ma inventore del personaggio. Mio figlio Zeno, che lo conosce, dice che una volta, chiacchierando, gli aveva suggerito (chissà se è vero e se lo Sclavi se ne ricorda), di dare al protagonista i tratti dell’attore inglese Rupert Everett, lo studente di college che, in Another Country, diventerà spia del Kgb.
Nella mia cucina è appeso un disegno originale con dedica di una tavola per il n.75 del Dylan (Il tagliagole – dicembre 1992). L’ha disegnata Didi Coppola, mio vecchio amico di Chiavari, che per molti anni lavorò nella Londra swinging e illustrò alcune delle inchieste del detective sempre coinvolto in faccende paranormali. Altre due tavole del Didi le ho regalate a Marco e Zeno.
y)
Il comparto che segue è all’insegna del Cinema e testimonia la mia vocazione di cinefilo. Contiene due medaglie commemorative dei vent’anni e dei cinquant’anni di vita del “Circolo del Cinema” di Verona, forse il più vecchio d’Italia, che mi vide tra i suoi fondatori, nel 1947 ed è tuttora attivo. Vogliono significare l’importanza della tenacia e delle buone intenzioni che resistono al dissolvimento. Tenacia e resistenza delle quali io non finisco mai di compiacermi (benché non siano attribuibili a mio merito, ma al caro Pietro Barzisa, mancato nel 2014, presidente inamovibile del Circolo per più di mezzo secolo).
z)
L’uovo di legno dipinto fa parte di una raccolta avviata e portata avanti con buona tenacia non da me ma da Laura. Un uovo in mostra sta sempre bene.
Solo un riempitivo in quest’ultima casella, lo ammetto, in attesa di scovare ancora qualcosa fra i cimeli che suscitano ri-cordi (dal latino cor, dice l’etimologia, perché una volta si pensava che la memoria stesse nel cuore, intermittenze comprese). Scovare qualcos’altro, dunque, caso mai saltasse fuori e avesse le dimensioni adatte per prender posto tra il meno male della mia vita, per passare dal silenzio dei cassetti all’incantesimo di un altro silenzio, che possa resistere al nulla e a modo suo parlare a chi, vedendo, sappia ascoltare e, giustappunto, ricordare.
* * *
“Le cose! Le cose!”, esclamava una signora francese esperta di tropismi, citando o scimmiottando il Passeggiatore Ginevrino. Nutro fiducia che nessuna citazione, nessun paradosso o assurdo, nessun Isidore Ducasse o Veggente Argentino possa irrompere in cucina per vanificare l’ordine arbitrario ma necessario di questi insiemi e la convenzione che li riunisce tutti. Potrà certo accadere in futuro che la mia vetrina si svuoti di senso per oblio delle cause, delle ragioni che tengono assieme il suo contenuto. Mi accontento, per ora e fin che dura, di aver ricuperato, salvato le Cose dall’ombra della dimenticanza. Di aver fatto sì che esse siano entrate (e sono entrate subito), nel cerchio rassicurante delle mie abitudini quotidiane.
Amo, quando la mente si lascia andare, sollevare lo sguardo alle Cose. Esse parlano il linguaggio che solo gli occhi avvertono e interpretano, mentre mi muovo o siedo nella stanza e mi occupo d’altro. Mi seguono immobili, tacite, e servono a farmi strada, se non nel grigio niente dell’avvenire, nel presente di ogni sguardo e, naturalmente, nell’altro niente che è il passato. Osservo e riosservo le Cose una per una, seguo fili invisibili che le collegano da un comparto all’altro, immagino catene di associazioni e di similitudini, reticoli di nessi che riportano alla luce reminiscenze, sensazioni dimenticate.
Semplicissima, costruita con tecniche fai-da-te, potrebbe sembrare uno di quei marchingegni sperimentali che servono agli scienziati per mettere alla prova nuove teorie. Assicuro che non è stata pensata per questo. Può testimoniarlo, se non altro, l’assenza attorno alla mia vetrinetta di quelle disordinate pastasciutte di cavi aggrovigliati che circondano le apparecchiature nei laboratori di ricerca e che nessuno si cura di sbrogliare e sistemare come si deve. La mia è una macchina “cordless”, non abbisogna di fili, cavi, sensori, manometri e monitor né di nessuna energia, se non interiore. Tutto quello che le serve per funzionare sta già dentro di me. Io stesso, in realtà, ne faccio parte o, meglio, essa è diventata una parte di me. E’ una macchina non sperimentale, dunque, non utilizzabile per costruire teorie o per provarne la validità. Non consuma nulla e marcia, posso garantirlo, senza nocive emissioni residuali d’inquietudine. Una macchina “pulita”, che serve a me e basta.
Devo ammettere che altri hanno già messo a punto da tempo meccanismi più o meno efficienti per il recupero di memorie perdute nel tempo. Ancora un francese (questi francesi!), grande competente di bricolage mentale, è riuscito ad impiantare, partendo in pratica da zero, una fiorente impresa di recuperi mnemonici, che non ha rivali nel suo campo. Il suo modus operandi è basato su un principio già noto ed evidentemente assai ricco di potenzialità: la realtà non esiste per noi finché non sia stata ricreata dal pensiero. Si sa però che il pensiero è debole, da solo non ce la fa a portare a buon fine un lavoro tanto impegnativo di ricostruzione. Per scuoterlo dalla sua naturale inerzia occorrono spunti decisi d’energia. L’imprenditore francese ne ha trovato alcuni potentissimi ma nello stesso tempo economici, alla portata di tutti: il sapore (dei biscotti), l’odore (della legna che arde nel caminetto) e le altre qualità delle Cose che i sensi ci rivelano, e in più la musica (che richiederebbe un discorso per me troppo complicato) e qualche semplice gesto, come slacciarsi il bottone d’uno stivaletto. E da allora il suo pensiero ricostruttore dei tempi andati non si è più fermato.
Non potendo io, anche per questioni di brevetto, utilizzare procedimenti ideati e già impiegati da altri con tanto successo, sono ricorso direttamente alle mie piccole Cose residuate, che si sono dimostrate capaci di fornire uno spunto sufficiente per una buona rievocazione e ricostruzione del mio passato. E con il vantaggio di un costo nullo, essendo le spese relative (a parte quelle d’impianto della vetrinetta), già completamente ammortizzate.
Ho usato, dicevo, Cose rimaste per decenni rinchiuse nei cassetti. Regno sconosciuto molto simile, secondo qualcuno più fantasioso di me, a quello in cui resterebbero inutilizzati anche tutti i nostri beni interiori, compresi i dolori e le gioie, “senza renderci alcun servigio”. Ebbene, mettere alfine a profitto queste piccole Cose apparentemente insignificanti e disoccupate, è già stato per me un primo momento di gratificazione.
Il francese dell’impresa recuperi sostiene che, per un buon lavoro, le sue macchine richiedono, oltre all’indispensabile spunto, anche la presenza di circostanze favorevoli, in coincidenza con certe intermittenze del cuore che, in taluni momenti “magici”, permetterebbero di ottenere il massimo rendimento. Un modo elegante di far intendere che non si può mai essere sicuri se il suo sistema funzioni o no, legato com’è alle inevitabili discontinuità cardiache, specie con l’avanzare dell’età.
Modestamente, sostengo che la mia macchina-vetrinetta è affidabile in ogni situazione e non abbisogna di nessuna condizione propizia del cuore e di nessun momento magico. Si avvia immancabilmente (basta uno sguardo) in ogni momento della giornata e continua a marciare finché ne ho voglia. E se la riguardo, si rimette subito in moto.
Non so, e non me ne curo, se azionandola essa provochi quel “lampo dell’incontro poetico” di cui tanti altri hanno parlato, magari per negarlo, e se quel lampo si ripeta ogni volta. A me basta molto meno, che finisce tuttavia per diventare molto di più. E questo perché la mia macchina sfrutta un altro noto principio, quello della consuetudine, che attenua le emozioni ma ne prolunga indefinitamente la durata nel tempo.
A questo punto mi avvedo che, nella foga di vantare i pregi della mia vetrinetta, sto usando parole e argomenti degni della peggior pubblicità comparativa. E’ vero che basta uno sguardo a mettere in moto il mio marchingegno, ma è un moto che non porta a niente, se non interviene il pensiero. Altrimenti, è come avviare un’automobile in rimessa: ci si può al massimo compiacere ascoltando il ronzio regolare del motore in folle. Allo stesso modo, se mi limito a guardare la mia macchinetta, posso compiacermi che sia lì, in cucina, attrezzata a dovere, perfettamente funzionante, pronta a dar inizio al lavoro di reminiscenza. Potrei rimirarla per un giorno intero senza cavarne nulla di più. Ma quando entra in azione il pensiero, forte o debole che sia, un mondo intero si apre. E’ allora possibile compiere tutta una serie di operazioni non certo semplici, come non lo sono quelle necessarie a condurre un’autovettura: innestare la marcia, premere l’acceleratore e, manovrando accortamente il volante, uscire sulla via, orientarsi nell’intrico delle strade, imboccare la giusta direzione e avventurarsi nel viaggio.
Tutto questo lo so bene, eppure, prima di muovermi, di applicarmi a creare nessi, ad evocare, ricostruire eccetera, mi sento già abbastanza appagato e fiero, semplicemente dell’ordine secondo cui sono riuscito a suddividere le Cose nei comparti. Devo stare molto attento a non restare così, in rimessa, automobilisticamente in folle. Non riesco mai a sottrarmi ad un breve, narcisistico momento di riposo sui miei allori, per l’opera sin qui compiuta. Perché ogni casella sottende, se non una categoria, un concetto. Ho speso più tempo, divertendomi, ad escogitare quest’ordine di quanto me ne sia servito per ritrovare le Cose disperse qua e là nella casa.
Chi ha detto (mi pare sia sempre il nostro imprenditore francese), che le cose sono materializzazioni della memoria, aveva ragione. C’è chi vuole, e riesce orgogliosamente, a investire i ricordi, o meglio, il ricordo di sé, in mobili, quadrerie, biblioteche, palazzi, castelli, parchi, territori, paesaggi. Inizialmente, ciascuno di noi è mosso solo dal comprensibile desiderio-piacere di mettere da parte qualcosa, di possedere, di collezionare. La voglia di eternarsi viene dopo. Ma quando “le sentinelle dell’anima sonnecchiano”, come ammoniva un vecchio saggio, il desiderio diventa per qualcuno ossessione maniacale. Più crescono l’ego, l’orgoglio, la vanità, più forte si fa la pulsione a possedere. E più s’accresce la quantità di Cose ammucchiate, più aumentano anche le probabilità di una loro futura dispersione. Un assemblaggio mostruoso si rivela quasi sempre inutile ed effimero, una volta che sia venuto meno, con la morte del raccoglitore, l’impulso al possesso che serve a protrarne la memoria nelle cose. Ci sono, è vero, gli eredi, e con loro la possibilità di sospingere al di là dell’esistenza del singolo il suo ricordo, oltre che nel sentimento, nella meno labile concretezza delle cose che scortano la vita, nei beni custoditi con cura. Fra tanti superstiti di successive generazioni, tuttavia, i patrimoni smembrati perdono man mano consistenza, si riducono alla fine a poche reliquie. Alle quali si séguita in ogni modo ad aggrapparsi, per ritrovarvi una traccia sempre più evanescente delle proprie radici.
A me sembra (ma forse mi sbaglio), di sfuggire a tali tentazioni e rischi, non soltanto per la minima quantità di cimeli che mi sono rimasti, scampati a innumerevoli disbrighi, ma anche perché essi sono tutti senza alcun valore, se non d’affetto. E sono Cose piccole, le uniche che possano veramente appartenerci, come soleva dire dei suoi ninnoli lillipuziani la povera Bonnie Cluster, ammazzata barbaramente a Holcomb.
C’è una sola tentazione alla quale non sono riuscito a sottrarmi: classificare le Cose. Credo che all’origine della decisione di suddividerle e raggrupparle nei vari comparti secondo (per dirla pomposamente) una tassonomia simbolica, stiano le mie velleitarie intenzioni collezionistiche. Non ricordo quante raccolte ho iniziato senza riuscire mai, non tanto a completarne una, ma nemmeno a mettere assieme di ognuna un numero decente di pezzi. Sarà stato per incostanza o mancanza di determinazione, fatto sta che a un certo punto mi sono sempre stancato di raccogliere.
Disporle ed esporle, dopo che mi era venuta l’idea di farlo, non ha comportato, in fondo, un grande impegno. Sentivo soltanto, questo sì, che radunare quelle Cose in un certo ordine e in un certo punto della mia casa, era un modo di arricchirne, per il fatto stesso che fossero riunite, il significato.
Farò un elenco delle Cose raggruppate, certamente tedioso per eventuali estranei, ma qui gli estranei non sono graditi, questa è roba riservata a me e famiglia. A me stesso, soprattutto, almeno per ora. Sto scrivendo per me, prima che per i miei posteri, ma sono convinto che questa piccola raccolta gratificherà anche loro. In fatto di ricordi famigliari essi avranno, non ne dubito, la bocca buona come me, e non baderanno tanto alla forma quanto alla sostanza, accetteranno tutto volentieri, si commuoveranno anzi moltissimo al cospetto del patetico di queste Cosette e di quel tanto di sentimentalismo, d’accatto o meno che sia, con cui ne parlerò. Commozione dovuta al semplice fatto che io non ci sarò più, me ne sarò andato, sarò morto, sparito, trapassato fra trapassati, ma tutto quello che lascerò sarà necessariamente, e irrimediabilmente, circonfuso da un’aura, che renderebbe accettabile e cara anche una collezione di sette nani di plastica (nemmeno questa sono riuscito a mettere assieme).