Storie Brevi – La memoria
La memoria
Se c’è qualcuno qui che non ha mai fatto del male
a una persona amata, è pregato di alzare la mano.
Michael Cunningham
Ah, la memoria! Me ne stavo dimenticando. Eppure me l’ero scritta. Dove l’ho messo il biglietto?… Ah, eccolo qua. Me ne scrivo uno ogni sera, nero su bianco, per ricordarmi quello che devo fare il giorno dopo. E se non me lo scrivo faccio fatica ad addormentarmi, e poi dormo male. E il giorno dopo sono dolori a ricostruire la lista di tutto ciò che m’ero ripromesso di sbrigare in giornata, e qualcosa resta sempre fuori.
Eccola qua: memoria. È la prima voce che ho scritto ieri sera. Non proprio una «cosa da fare» oggi, se vogliamo, ma in ogni caso un problema(per me).
Problema che si risolverebbe subito se ogni volta che mi accingo a dimenticarmi di qualcosa avessi sotto mano qualcuno che mi ricordasse che sto per dimenticarmela. M’è venuto in mente ieri sera a letto e subito ho annotato sul biglietto: memoria, per ricordarmi stamattina di tornarci su.
Ora ci rifletto e mi accorgo che non è una gran scoperta quella del rammentatore. Una volta c’era lo schiavo che soffiava all’orecchio del generale in trionfo il classico hominem te memento (che, dati storici alla mano, non doveva essere tanto efficace e, finita la festa, chissà il povero servo). Qualcuno, non so quando, escogitò un metodo più economico: il nodo al fazzoletto. Che però continua a non risolvere niente. Uno si ricorda solo che aveva qualcosa (ma cosa?) di cui ricordarsi.
Schiavo o fazzoletto, comunque sia, stare lì a pensarci su è pur sempre una «cosa da fare», anche se sdraiati comodi in letto, come ieri sera, o stamattina in poltrona. Magari con in bocca una caramella da succhiare, che sarebbe poi quello che preferirei, se non ci fossero di mezzo gli zuccheri. E allora diciamo con un bicchier d’acqua in mano, anzi, con una bottiglia di plastica, da riempire sotto il rubinetto quando è vuota, per buttar giù il salutare litro e mezzo di liquidi al dì, che dicono indispensabile.
Pare, del resto, che certe idee, grandi e piccole, siano nate proprio così, per caso, stando a letto o in poltrona a svariare o chiusi in bagno o magari facendo una passeggiatina. La storia umana è piena di questi parti mentali. Speriamo che ne venga presto uno migliore anche a me.
Se ho parlato all’inizio di problema, c’è la sua ragione. Perché non occorre aver preso il Nobel per capire che la memoria, la famosa Mnemosine (non per niente madre delle muse), è quella che fa ‒ che ci fa ‒ esistere, e lo sapevano già benissimo i vecchi padri barbogi dei musei archeologici con sotto il nome scritto in greco. Che a un certo punto, quando arriva «l’obliviosa vecchiezza» (ma che modo vecchio di tradurre!), e qualche volta anche prima, ti accorgi che gli amici non ti riconoscono più, non sanno più chi sei, non sono più testimoni delle cose che sapevano di se stessi e anche di te e ti rendi conto che non esistono più. E che anche tu non esisti più, almeno per quanto ricordavano loro di te. E passato un altro po’di tempo, addio, non parlano più, non si muovono più, è come se fossero morti, benché si insista e ci si accanisca a nutrirli con sonde e flebo. Morti prima che il loro corpo muoia. Tutto per via della memoria che non c’è più, nemmeno quella che chiamano istintuale, procedurale o roba del genere, che servirebbe a eseguire le faccende essenziali per sopravvivere.
Toccando ferro, non è il caso mio. Non sono mai andato né dal neuro né dallo strizzacervelli, e spero di non andarci mai, ma un amico ormai da tempo trapassato, che se ne intendeva e che evidentemente mi conosceva bene, mi aveva detto anni e anni fa (questo me lo ricordo perfettamente, come fosse adesso), che il mio era un problema di labilità. Memoria debole, insomma, facile a perdersi.
Secondo lui, era una conseguenza del mio modo di stare al mondo. «Tu sorvoli la realtà, non la vivi nella sua concretezza». L’aveva presa alla lontana, sorvolando poeticamente. In realtà credo che volesse dirmi: «Svegliati, ragazzo, matura un po’, cerca di capire la vita che stai vivendo, di pensarci un po’ su, di far attenzione, impara da ogni esperienza reale, e anche da quelle immaginarie, come un film, come la lettura di un libro».
Questo episodietto del sorvolo, come si vede, me lo ricordo benissimo, non è memoria inventata, ce l’ho stampato in mente, parola per parola. E mi ricordo anche di aver pensato che il mio amico stava citando e applicando al mio modo di essere quel verso di Cardarelli, in cui il poeta, allora molto letto (anche da me), diceva di se stesso che sfiorava la vita come i gabbiani sempre in volo.
Ci deve essere un motivo di questa permanenza nelle giravolte della mia zucca, e stamattina l’ho capito: mi restano perfetti in mente soprattutto avvenimenti, parole e nomi (persino Cardarelli!), che hanno a che fare con circostanze in cui ho fatto una brutta figura, mi sono comportato in modo goffo e sbagliato o sono stato rimproverato, quando il mio io (o sé?), ripensandoci, ha dovuto arrossire. Io non arrossisco mai, ma giuro che in certe situazioni (abbastanza frequenti), per una figuraccia che sto facendo, succede che dentro di me divento rosso come una ciliegia. E se rovisto un po’, volendolo o no, tutte le mie vecchie brutte figuremi ritornano subito fuori, e anche certi altri miei passati comportamenti che all’improvviso mi appaiono nella luce giusta e, senza che si veda, riarrossisco come fossero cose di oggi.
E ci sarà anche una ragione per il fatto che alcuni momenti sgradevoli dei miei ieri, inamovibili da dentro di me come le piramidi o le megapietre di Stonehenge, abbiano talvolta per non dire spesso a che fare con i libri.
I libri sono un altro mio grosso problema, una specie di Fata Morgana. Dei libri che ho letto, o che mi sono illuso di aver letto, un mese, dieci giorni, due giorni fa, non mi ricordo più niente, come se non li avessi mai letti (e tralasciamo per carità di patria quelli di cinquanta o venti o dieci anni or sono). Mi sforzo, quando credo di leggere dei libri, di riassumermeli in testa, di distillarne il succo almeno in una frase. Invece, zero. Tutta fatica inutile, potrei andarmene a spasso, invece di star lì a cavarmi gli occhi sulle pagine. O guardarmi un bel film alla tv (che poi è lo stesso: appena finito, se mi chiedessero di riassumerlo, farei scena muta).
Forse non ho mai impiegato gli strumenti giusti per memorizzare ciò che leggo o guardo (anche questo farà certo parte del «sorvolare» di cui parlava quel mio amico buon’anima). Una volta ho consultato un manuale che spiegava come si può fare a conservarne il ricordo, ma il metodo mi era sembrato complicatissimo, già a pagina quindici non mi ricordavo più da che parte si doveva cominciare. Avevo letto anche di quel caso clinico dell’uomo che aveva una memoria super e che si costruiva nella mente delle strade dove ogni edificio corrispondeva a una certa cosa da ricordare. Figurarsi, oltre a ricordarsi le cose, bisognava ricordarsi le case corrispondenti. Roba da matti.
Ho comunque tentato, mi sono applicato, ce l’ho messa tutta, anche usando sistemi che molti dicono sbagliati, come sottolineare le frasi importanti, o annotarsele col numero della pagina nei fogli bianchi che ci sono in fondo ad ogni libro, o addirittura trascriverle e conservarle in un raccoglitore. Dopo anni (o magari dopo appena un po’) se prendo in mano uno dei miei vecchi libri e lo leggo qua e là mi dico: “uh, che interessante questa considerazione, non ci avevo mai pensato, aspetta che me la segno”. Prendo una matita, apro una delle pagine bianche in fondo al libro e… scopro non solo che la frase è già segnata, ma anche che quelle pagine sono gremite di annotazioni fatte da me, e mi dico: guarda quante cose ho segnato, e non me ne ricordo nemmeno una. E leggendone una a caso mi chiedo: ma che cavolo vuol dire questa frase? Ho provato anche a farmi dei riassuntini scritti o mentali, ma non mi è mai servito a niente.
Sarà per questo che durante le conversazioni sto zitto, o mi limito a qualche battuta, per non pagare il dazio. Sarà anche perché non sono un intellettuale. E nemmeno un dilettante di intellettualità, uno di quelli che gli specialisti più indulgenti giudicano con un mezzo sorriso di simpatia o di compatimento.
Mi ricordo però (questo proprio me lo ricordo), che in un certo periodo della vita ne parlavo un po’ con tutti dei miei problemi di memoria, non so se per trovare uno sfogo, o per mettere le mani avanti e prepararmi una giustificazione in caso che le dimenticanze avvenissero (come poi puntualmente accadeva e continua ad accadere). E tutti mi dicevano eh, non sei il solo, càpita anche a me. Il che, invece di consolarmi, mi deprimeva: che tutto succeda a tutti, voleva dire, tra l’altro, che non ero un caso speciale, eccezionale di smemoratezza, rientravo nella norma. Anche per questo a un certo punto ho smesso di tirar fuori il discorso, per non rompere le scatole e non passare per maniaco.
Ma nei giorni scorsi ci ho riprovato. Con un vecchio amico, al solito, che mi ha detto: guarda che me l’hai già raccontata questa solfa, e non solo a me ma a tutta la compagnia, quando ci hai letto quella poesia divertentissima di quell’americano… come si chiamava? Non ti ricordi?
Io l’ho guardato e ho fatto una faccia. Come, ha esclamato l’amico, ma anche di questo ti sei dimenticato? Dai, non prendermi in giro, possibile che non te ne ricordi? Quel poeta che diceva di essersi persino scordato il nome del fiume mitologico che cancella la memoria, gli pareva solo che cominciasse con una «Elle»… Guarda, ce l’hai letta proprio tu, e ci hai fatto tanto ridere! Non è possibile!
E a quel punto, dentro di me, ecco, devo essere arrossito. E ieri sera, a letto, dev’essermi tornato in mente. E sentivo che riarrossivo. E forse tutto questo discorso, e anche la mia «scoperta» della necessità di procurarmi una specie di segretario che registri i miei momenti bui e ci metta una pezza, saranno nati da lì.
No, ripensandoci, non solo da lì. Da qualcosa di molto più bruciante. Da una bella ferita che quasi sanguina ancora.
Pochi giorni fa m’è capitato di tirar giù un libro da una delle mie librerie sovraccariche e, per la verità (se appena si guarda meglio), piuttosto impolverate. Vecchio libro elegante, conservato benissimo, grazie alla custodia con arabeschi dorati, un po’ scassata dai traslochi ma ancora efficiente. Ma sì, era il Moby Dick in cartoncino azzurro, editore Frassinelli, Torino 1950, traduzione: … come no, di Cesare Pavese, e in copertina (questo l’ho riconosciuto subito: il bel disegno tutto bianco, modernissimo, della balena con il suo pennacchio di vapore).
Libro del quale, naturalmente, già un paio d’anni dopo la lettura, m’erano rimaste in mente al massimo un paio di frasette: il «Chiamatemi Ismaele» dell’incipit e quel «Laggiù soffia!». Quanto al resto, un confuso minestrone. Certo, una vaga sensazione di grandiosità, di epico, qualcosa a tratti divertente e coinvolgente, non c’era dubbio, ma tutto molto complicato, verboso. Cose di mare ‒ dritta sinistra sàgole gavitelli forcacci velacci velaccini ‒ e di stati d’animo, che non avrei saputo riassumere nemmeno in due righe. E poi, ecco, l’elenco di quelle cose bianche che fanno paura, ma non me ne ricordavo neanche una, tranne la balena, bianca ovviamente (a proposito, c’era un’altra cosa bianca inquietante in un altro libro di quell’americano, anche lui dell’Ottocento, quell’ubriacone, come si chiama, si vede che agli americani il «bianco» dà alla testa).
Mi sto perdendo nei dettagli, sto divagando come sempre nel nulla. Forse con i libri mi succede quello che sosterrebbe un certo Pierre Bayard in un saggio che naturalmente non ho letto, ma del quale trovo riportato il succo in una vecchia Bustina di Eco. Secondo questo Bayard, dunque, dei tanti libri da me dimenticati mi andrei ricomponendo nella zucca soltanto delle specie di “immagini virtuali” formate più che altro non da quello che i libri dicevano veramente, bensì da ciò che “mi avevano fatto passare per la mente”. E caso mai mi capitasse di accennare in qualche chiacchiera
tra amici a un libro scordato, gli attribuirei episodi e contenuti arbitrari che si aggirerebbero nella mia capoccia. Sono troppo pigro per andare a controllare, ma non mi sembra un’idea peregrina. Arrossisco pensando alle figuracce che avrò fatto, supposto che i miei interlocutori non fossero smemorati come me.
Ma la cosa veramente importante, che séguita a bruciarmi, anche se sono passati sessant’anni e più ma è come se fosse adesso – e dalla quale secondo me nasce tutto –, è un’altra:
Mia moglie mi viene vicino e mi dice:
‒ Ho visto che nel Moby Dick hai sottolineato delle frasi.
‒ Hai cominciato a leggerlo? ‒ rispondo io, con una domanda.
‒ Be’, ‒ dice lei ‒ mi ricordo quanto ne era entusiasta l’Alberta, e voleva assolutamente che tu lo leggessi. Per questo te l’ho regalato. E adesso provo a leggerlo anch’io.
‒ Provi? ‒ (altra domanda).
‒ Sì, provo. Con calma, sono quasi ottocento pagine. Voglio vedere se è così appassionante come diceva l’Alberta. Tu hai fatto parecchie sottolineature, ma come sempre non me ne hai mai parlato.
‒ Dove sei arrivata? – (terza domanda).
‒ Sono appena all’inizio. Ismaele che alla locanda deve dividere il letto con quel selvaggio, quel baleniere della Polinesia. Molto divertente Ma la mattina dopo, alla cappella, diventa triste, con tutte quelle lapidi dei morti in mare. E qui tu hai sottolineato una frase e non capisco perché.
Lei va a prendere il libro, cerca la pagina e legge ad alta voce (lo riapro anch’io – ora – trovo la pagina, rivedo il segno, leggo): ‒ la vista delle tetre lapidette tornava simpateticamente a far sanguinare le vecchie ferite. ‒ Poi lei mi guarda, con quei suoi begli occhi azzurri, intelligenti e ancora fiduciosi, aspettando una risposta.
Bene, non erano passati nemmeno due anni da quando avevo segnato quelle parole che diceva mia moglie, e già ci ristavo: non mi ricordavo più non solo di averle segnate, ma nemmeno perché.
Le avevo tolto il libro dalle mani, avevo scorso e riscorso le righe in caccia d’una ragione della sottolineatura. Naturale che le lapidi dei morti facessero soffrire chi li aveva persi. Chissà che cavolo mi aveva rammentato quella frase. Qualcosa che senza dubbio era accoccolato nel contesto, o dentro di me. Ma cosa?
Avevo lì per lì improvvisato una spiegazione, arrampicandomi sugli specchi. Lei se n’era certo accorta, e aveva lasciato perdere.
Di anni ne sono passati proprio tanti e anche lei, ora, è una lapide.
Risfoglio piano le pagine del Moby in cerca dei miei segni. Li ritrovo tutti, uno per uno. Segni apposti non sotto, per sottolineare le singole parole, ma accanto, nel margine. Una lineetta verticale a matita, molto leggera, appena visibile. Ho avuto e non smetto di avere un gran rispetto per la carta dei libri, più che per quello che c’è scritto sopra.
E in questo momento mi pare di sapere la ragione di quel segno accanto alle lapidette che fanno sanguinare le vecchie ferite. Non per una cosa d’allora, ma di adesso. Come avessi segnato a futura memoria un quid che aveva poco a che fare con la storia di Ismaele e della balena, ma che io collegavo sin da allora in qualche modo, vallo a sapere come, con i miei fallimenti a venire, con gli scacchi che si sarebbero accumulati giorno dopo giorno.
E adesso, dopo tanti anni, in un lampo, ecco che me ne sono accorto (che sia entrato in funzione il segretario?). E mi sono ricordato tutto di quello straccio di conversazione negata alla persona alla quale (a modo mio), tenevo di più al mondo, e che cercava un colloquio. Prima, quel mio aggressivo non-rispondere per nascondere il vuoto della mia non-memoria. E poi quel raffazzonare una spiegazione, per fingere una sensibilità (o una ragione) che vede profondo.
Roba da chiodi. Non sanguino, adesso, perché queste miserie non hanno più sangue da versare.
Invece dovrei. Quel frammento di dialogo mancato ‒ di mie non-risposte, un non-conversare di cui allora non mi ero reso conto ‒ per non rispondere alla semplice domanda: perché quel segno?
Basta. Lasciamo perdere. Mi sembra proprio che – tralasciando la faccenda delle immagini virtuali ‒, la bella scoperta del segretario o servo mentale nascosto in qualche sgabuzzino o ripostiglio nello scantinato oscuro della mia testa, pronto a segnalarmi che mi sto dimenticando una cosa, cioè a costringermi a ricordarmela, sia una sciocchezza da aggiungere alle tante. Al lastricato delle buone intenzioni (peggio, alla preoccupazione di trovare qualcuno o qualcosa su cui scaricare ipocritamente le colpe). Figurarsi, un servitore così bravo da intuire tanti anni fa, da chissà mai quali segnali, che un giorno futuro, grazie anche ai suoi suggerimenti, dai e dai, avrei smesso di «sorvolare», avrei visto chiaro nel grande squarcio di innumerevoli ferite, e mi sarei finalmente ricordato di quello che dicono veramente i libri, mi sarei accorto degli altri, del mondo, e anche di me. E se tutto non funzionava era colpa sua, del segretario che aveva dimenticato qualcosa, non mia.
Ah, la memoria. In questo momento, ora, con tutto questo mio noioso piangermi addosso, sono quasi sicuro che mi succederà, in qualcuna delle mattine che mi restano, di pensare svegliandomi che – nello specialissimo caso mio, beninteso –, memoria e smemoratezza non siano altro che le due facce della stupidità.