Altre Storie – Su niente, gratis
Viaggiatore senza biglietto
Dev’essere entrato silenzioso mentre guardavo dal finestrino e quando mi volto mi sorprendo di lui come di un’apparizione.
E’ un uomo molto pallido e magro. Si è seduto nel posto più vicino al corridoio con l’aria di chi sta lì provvisoriamente. Mi colpisce il suo viso perché è più che pallido. Ha il colore cachettico di certe facce malate con le occhiaie fonde che si vedono soltanto negli ospedali.
Ci salutiamo con un cenno della testa da bravi e unici compagni di scompartimento e forse di carrozza. Il diretto è desertissimo questa domenica mattina e la vettura puzza dell’acre odore di treno ripulito che si respira particolarmente nelle seconde classi.
L’uomo dev’essere salito all’ultima fermata. Ha certo percorso tanti vagoni vuoti fin che non ha trovato me per viaggiare in compagnia. Penso così perché mi guarda e mi sorride senza pronunciare una parola. Sorride con una grande tristezza nel viso emaciato e negli occhi affossati.
Porta un distintivo all’occhiello della giacca. Non ne scorgo i particolari ma mi sembra di riconoscere il simbolo noto di un’associazione o gruppo o club che ho visto altre volte. Chi porta oggi un distintivo all’occhiello? Non i ragazzi che non hanno più occhielli e i simboli se li cuciono addosso. Magari sul sedere dei jeans. Li porta qualche fanatico di calcio o qualche mutilato che si preoccupa di far capire che non è colpa sua se gli manca un braccio o una gamba. O uno che si affida al distintivo per dare un senso di appartenenza alla propria vita. Per dimostrare che fa parte di qualcosa di importante. Una persona che altrimenti non avrebbe niente e non sarebbe nessuno.
L’uomo non ha bagagli e ha camminato a lungo sotto la pioggia caduta sino a poco fa. La stoffa del suo modesto abito grigio si sta asciugando in tante piccole pieghe lungo le cuciture. E i calzoni fuori moda a zampa d’elefante pendono sformati sulle scarpe sporche di fango.
Non dev’essere né un vagabondo né un balordo. C’è molta decenza nel suo modo di sedere composto. Sarà uno di quegli impiegatucci che ancora si ostinano alla dignità della camicia e della cravatta. Mentre i loro colleghi si sono da tempo messi più comodi nelle felpe trasandate e nei giubbotti 30 per cento cotone e 70 poliestere.
Siede e sta zitto guardandomi col suo sorriso triste. Come fosse in attesa. Mi sento spinto da non so che a rompere il silenzio e a chiedergli:
Quel distintivo mi pare di conoscerlo.
Se lo guarda e si schiarisce la voce:
E’ dei donatori di sangue.
Allora lei è un…
Deve intuire una sfumatura di perplessità nelle mie parole.
Sono stato donatore fino a un anno fa. Ora non più.
Ho sentito dire che quando si comincia a dare sangue non ci si può più fermare. E mentre parlo già mi pento: il sangue dovrebbero donarlo a lui. Altro che cavarglielo.
Difatti l’uomo risponde: Non nel mio caso. Io sono… molto ammalato. Una lunga storia. Incredibile.
Si sporge verso di me: Lei pensa che in tutta coscienza uno che sa di essere ammalato continui a offrire sangue? Uno che sta coi donatori da venticinque anni? Non un anno: venticinque anni! E fa con le mani magre e tremanti due segni di dieci dita e uno di cinque.
Mi dispiace.
E poi tutte le calunnie: lei non immagina.
Si arresta e sobbalza come se fosse improvvisamente colpito da un’idea. Leva le braccia e guarda avanti come avesse una visione:
Ora so com’è accaduto!
Resta in silenzio con gli occhi persi. Dopo un po’ si riscuote e sospira:
Ormai non posso fare più niente. Ingenuità, leggerezza… Mah!
Torna a scrutarmi silenzioso. Poi alza un indice verso di me e cambia tono:
Lei ha centrato subito il mio problema. Ha visto il mio distintivo. Non mi sono sbagliato a sceglierla.
Lo guardo senza capire.
Già. Lei non è credente ma parla con i suoi morti.
Continuo a non capire.
E chiede loro cose pratiche. Concrete. Protezione per i suoi figli e per i loro figli. Una pausa. Per questo l’ho scelta.
Dovrei essere stupito di quello che dice e invece non lo sono. E’ come se ne avessimo già parlato.
Si alza in piedi: Scusi se abbrevio ma non ho tempo per le spiegazioni. Che del resto non le servono. Lei mi deve aiutare.
Faccio un gesto imbarazzato di disponibilità. Anche se non so per che cosa.
L’uomo dà una rapida occhiata nel corridoio. Poi stando sulla porta mi dice parlando sempre più in fretta e alzando la voce man mano che va avanti col discorso.
Ora il treno si fermerà. Lei scenda. Tanto scenderanno in molti. Scenda sulla destra. Prosegua e troverà un cavalcavia. Discenda la massicciata. C’è un marciapiedi e pochi scalini. Discenda ancora. Sulla sinistra vedrà un cespuglio. Cerchi sotto. Troverà una busta con una lettera. La consegni subito ai ferrovieri. Per favore! Dica che l’ha trovata sulla massicciata. Lì doveva stare. Fermata da un sasso. Troppo leggero. E’ volata via col vento del treno. L’ultimo errore della mia vita!
Le parole finali quasi le grida mentre scompare dalla mia vista. Mi alzo e mi affaccio a guardare nel corridoio ma non c’è più.
Quello lì lo inseguo dall’ultima fermata. Dov’è finito?
Mi volto. Dall’altro lato del corridoio sta sopraggiungendo il capotreno.
Era seduto qui con me.
Ma non abbiamo tempo di dire altro perché il convoglio si arresta bruscamente. Il ferroviere mi casca addosso e io vado a sbattere contro il montante della porta.
E adesso cosa succede? impreca il capotreno avviandosi verso la testa del convoglio. Lo seguo tenendomi il braccio che mi fa male per la botta.
Scendiamo al primo sportello. Scorgiamo altra gente già a terra. Guardano tra le ruote e additano qualcosa.
Qualcuno è finito sotto, dice il capotreno, ora come minimo stiamo fermi un’ora.
Vado avanti sui sassi della massicciata e sento un vuoto allo stomaco. Ecco il cavalcavia. I viaggiatori scesi stanno guardando proprio sotto il vagone fermo a quell’altezza. Una donna si porta le mani al viso con raccapriccio e subito distoglie gli occhi.
Io non guardo ma cerco il marciapiedi con gli scalini. Eccolo. Scendo e vedo sulla sinistra il cespuglio. Tra l’erba intrisa di pioggia riconosco una busta bianca. Sembra un pezzo di carta buttato via. L’afferro e mi si affloscia tra le dita. L’acqua ha sciolto la colla e la busta è quasi aperta. E’ indirizzata al presidente dei donatori di sangue di un comune della zona. Dentro si vede un foglio. Resisto alla tentazione di leggerlo.
Risalgo la massicciata e cerco il capotreno. Sta parlando con il macchinista e con un agente della polizia ferroviaria sceso evidentemente dal treno con noi.
Il macchinista sta dicendo: Me lo sono visto davanti dopo la curva. Di solito stanno sdraiati. Qualcuno con la testa già sulla rotaia. Questo invece era in piedi con le mani sugli occhi. E’ andato a sbattere in pieno.
Mi avvicino al capotreno: Senta. Credo che questa busta la debba prendere lei. Era qui vicino ai binari tenuta ferma da un sasso. Penso che sia… e indico sotto il vagone.
Il ferroviere prende la busta e la apre. Scorre la lettera e la dà all’agente.
Fortuna che lei l’ha trovata. Generalmente la tengono in tasca.
Ora mi chinerò anch’io a guardare tra le ruote. Accanto a me un prete anziano sta raccolto in preghiera.
Non c’è molto da vedere per fortuna. Il corpo dev’essere stato maciullato. Scorgo solo un pezzo d’avambraccio con un esile polso e una mano dalle unghie biancastre. Più in là c’è una scarpa infangata con la calza infilata (e dentro ci sarà il piede). Non si vede tanto sangue. Se lo devono essere bevuto i sassi della massicciata.
L’agente ha ricuperato alcune parti del vestito. Fruga nei resti della giacca. All’occhiello luccica il distintivo dei donatori di sangue.
Per la lettera basta così?, chiedo al capotreno che si volge interrogativamente al poliziotto. Basta così. Posso risalire in vettura.
Allora l’ha trovata lei, dice una voce alle mie spalle. E’ il prete.
Come fa a saperlo?
Ho sentito ora lei che ne parlava. Indica sotto le ruote. Aveva chiesto anche a me di cercare la lettera. Ma prima ho voluto pregare.
E’ pallido d’emozione. Colpito come me da quella morte orribile. Ma nelle sue parole sento anche qualcos’altro. Non so se stupore o perplessità.
Aveva chiesto anche a lei? Ma quando? (Ora sono io a stupirmi).
Subito prima che ci fermassimo.
Subito prima? Qual è il suo vagone?
Uno degli ultimi. Anzi l’ultimo. Abbiamo parlato un po’. Improvvisamente si è alzato. Mi ha gridato cosa dovevo fare per cercare la lettera e poi è uscito di corsa. E un momento dopo il treno si è bloccato.
Ma com’è possibile? Non può aver avuto il tempo…
Il sacerdote mi guarda perplesso. Torniamo su che ne parliamo, mi dice ponendomi una mano sul braccio. Lei ha bagaglio?
Una valigia. Un paio di vagoni più in là.
Allora vengo io da lei. Ho solo questa borsa. Scendo fra due fermate.
Risaliamo.
Esito prima di entrare nel mio scompartimento. Indico un posto.
Era seduto lì.
Il prete guarda il sedile vuoto. Siede con un sospiro di fronte a me. Restiamo in silenzio. Sento dentro una sensazione come di angoscia. Respiro a fondo e mi stringo la fronte. Ho assistito ad un suicidio. In circostanze così strane e coinvolgenti.
Dunque è venuto anche da lei, mi decido a dire.
Sì. Me lo sono trovato vicino all’improvviso. Doveva essere salito all’ultima fermata. Il prete fa una pausa. Se era salito.
Mi riscuoto e lo guardo. Se era salito? Non capisco. Comunque è comparso anche a me improvvisamente.
Lo immaginavo. Credo sia una faccenda più complicata di come sembra, mormora il prete.
Più complicata? Mi pare già complicata così com’è. Ma cos’ha detto a lei? Posso saperlo?
Certo. Non era in confessione. Ma quasi. Aveva una faccia pallidissima. Era stato un donatore di sangue. Mi ha detto: Una lunga storia. Incredibile.
Le stesse parole anche a me.
Le stesse parole, ripete il prete Sono sicuro che se confrontiamo le conversazioni scopriamo molti punti in comune. Se non le stesse parole. Donatore di sangue, ammalato, le calunnie…
I malati si ripetono sempre quando parlano dei loro malanni.
Questo è un caso particolare. Mi creda. Congiunge le mani intrecciando le dita e chiude gli occhi. Stiamo in silenzio. Lui come se pregasse. Io con lo sguardo a fissare niente e a cercar di ricordare i discorsi del suicida.
Dopo un po’ mi riscuoto: Parole proprio uguali non penso. A me ha detto che “Non si era sbagliato a scegliermi” e già questo mi aveva sorpreso. Poi se n’è uscito con una frase (sento ancora il tono della sua voce): “Lei non è credente ma parla con i suoi morti”. E’ vero. Non sono credente. E con i miei morti parlo. Solo quando vado in cimitero. Naturalmente. Non so come abbia potuto saperlo. Però non sono parole che può aver usato con un sacerdote.
Già. A me ha detto semplicemente: “Lei che mi può capire e aiutare”. E non ho potuto far niente per lui! China la testa. Sta quasi per piangere.
Restiamo in silenzio. Io non riesco a pensare. E’ come se mi si fosse vuotata la mente.
Non capisco perché abbia cercato anche me. Bastava lei, mi viene da dire.
Sta pensando la stessa cosa anche lui. Ma con l’aggiunta dell’umiltà di un religioso: Ci dev’essere una ragione. C’è sempre una ragione. Io…Il Signore mi ha concesso la grazia della fede. Ma quel poveretto doveva sapere bene perché ci ha cercato entrambi.
Vada a indovinarlo.
No. Ci si può arrivare. Alza la mano come a fermarmi. Sta inseguendo un pensiero:
A lui interessava che qualcuno trovasse la lettera.
Certo. Scendere dal treno. Arrivare al cavalcavia. Vedere gli scalini. Discenderli. Guardare sotto il cespuglio.
Il prete accompagna le mie parole con gesti di assenso. Le stesse cose. Identiche.
Ho trovato io la lettera perché lei…
Ecco il punto!, mi interrompe illuminandosi Qui sta il punto: perché io mi sono fermato a pregare! Deve aver intuito che il mio primo e assoluto obiettivo poteva essere un altro: non trovare la lettera ma pregare per la sua anima… Così ha cercato anche lei. Per raddoppiare le probabilità che la lettera fosse recuperata e consegnata subito al capotreno.
Stava per uccidersi ma aveva le idee ben chiare, osservo. Si è sbagliato solo a deporre la lettera sulla massicciata. Fermata da un sasso troppo leggero. Invece di tenerla in tasca. “L’ultimo errore della mia vita”, ha detto.
Stessa frase anche a me… Ma no! L’ultimo errore è stato di uccidersi! Il prete alza le mani in un gesto di grande sconforto. L’errore! Il peccato peggiore!
Avrà avuto anche per questo le sue ragioni. Generalmente non ci si uccide per errore.
Lei non mi capisce. L’errore è uccidersi. Scuote la testa. La vita non ci appartiene: né a me né a lei. Per me è di Dio. E’ come una concessione in usufrutto. Uccidersi è rubare a Dio. E purtroppo tanti lo fanno. Per motivi assurdi. E qualche volta puerili.
Beh. Suicidarsi non è dappertutto tanto grave. Guardi i giapponesi. Per gli scintoisti uccidersi è un modo onorevole di congiungersi con gli antenati. Se uno ha sbagliato…
Per un cattolico uccidersi è un peccato gravissimo. Il resto è solo relativismo culturale. Molto di moda fra di voi non credenti.
D’accordo. Ma noi ne sappiamo poco. Intanto era molto malato. Su questo non c’è dubbio. Quali saranno stati gli altri suoi errori? Forse sono scritti nella lettera.
Aspetti, mi ferma il prete. Si ricorda cos’ha fatto quello sventurato dopo aver pronunciato la frase dell’ultimo errore?
Rifletto un momento. Sì. E’ uscito. Si è alzato ed è uscito in fretta. Subito dopo è arrivato il capotreno. Non le ho detto che il capotreno l’aveva già visto e lo stava inseguendo per controllargli il biglietto. Ma quello era sparito. E immediatamente dopo c’è stata la frenata e io ho sbattuto contro la porta.
Sì! Immediatamente dopo che è sparito il treno si è arrestato. E’ sparito sia nel suo vagone al centro del convoglio sia nel mio. Che era l’ultimo. Lei era già stato colpito da questa coincidenza. Dall’impossibilità che…
Ma sì! Ha ragione. Ci avevo pensato, ma poi discorrendo… Infatti, mi sembrava impossibile.
E’ impossibile.
Ci guardiamo e lo stesso pensiero ci attraversa.
E’ stato con noi due…
Nello stesso momento. Era con me e con lei contemporaneamente, dice il prete con una strana calma.
Ma questo si chiama…
Si chiama bilocazione. Abbiamo assistito a un fenomeno di bilocazione.
Un brivido ancestrale mi percorre la schiena.
Una persona in due posti diversi.
Sembrerebbe di sì. In due posti simultaneamente.
Bastano queste parole pronunciate con tono pacato a trasformare il mio brivido in magico stupore. E subito dopo in una sensazione di solennità misteriosa. Di stupore. Come aver visto il tanto atteso alieno. O un miracolo.
Dunque sono stato testimone – e protagonista – di un evento portentoso. Di un’esperienza che tutti sognano di vivere. Che è accaduta semplicemente a me. E che posso condividere con un altro testimone autorevole. Addirittura un sacerdote! Una persona insospettabile di menzogna. E quando la racconterò dovranno starmi tutti a sentire. Senza le espressioni scettiche e ironiche di chi non ci crede. Saranno tutti pervasi da brividi e da magico stupore per la mia storia straordinaria. Per averla sentita raccontare da uno che ha visto. Sarò lì a testimoniare l’indimostrata evidenza del mistero.
Insomma abbiamo assistito ad un miracolo!, esclamo protendendomi. Improvvisamente eccitatissimo.
Piano, calma, mi ferma il sacerdote sporgendo verso di me le palme delle mani. I miracoli sono rarissimi e li fa solo Dio. O i santi. E qui non abbiamo un santo. Che io sappia.
Continua a sporgere le palme come a voler frenare la mia eccitazione. Resta così per qualche istante. Evidentemente sta ripassando nella mente gli insegnamenti della dottrina.
I miracoli sono opera di Dio. O direttamente o per intermediazione di una persona. Qui saremmo nel secondo caso: di un intervento mediato. Ma può Dio essersi manifestato tramite uno sciagurato che stava per suicidarsi? Può Dio aiutare qualcuno a compiere un peccato mortale? Perché è questo che Dio avrebbe fatto. No! Non può essere così. Questo è un assurdo. Dio non può contraddirsi. Mai!
Scuote la testa. Agita le braccia. Ha perso la calma di prima. Rifiuta con tutto il suo corpo l’ipotesi.
Però è avvenuto, obietto io, e del resto (scusi se dico una sciocchezza) non vedo una manifestazione divina: un suicida voleva garantirsi che la sua lettera fosse trovata. L’ha già detto anche lei.
Un assurdo! Una bestemmia! Lei continua a non capire. Si è servito di un mezzo che trascende la natura umana nel suo essere e nel suo operare. In quanto rientra nell’ordine soprannaturale che dipende esclusivamente da Dio!
Il prete ha pronunciato le ultime parole a voce alta e a braccia levate.
Non so più cosa dire e mi stringo nelle spalle. Il treno è sempre fermo.
Tento di riassumere mentalmente i fatti. Dunque: l’uomo…
Mi ci vuole un po’ per collegare le parole e i movimenti del suicida e lo faccio segnandomi nell’aria ogni passaggio con l’indice.
E ad un tratto mi drizzo sul sedile: ho capito!
Il prete nota il mio scatto e mi guarda interrogativamente.
Forse ho capito cos’è successo. Vediamo: l’uomo compare contemporaneamente nei nostri due scompartimenti. Fa il suo discorso. In parte uguale e in parte diverso per quel che riguarda lei e me. Poi si alza. Annuncia che il treno si fermerà. Ci dà le istruzioni per trovare la lettera. Esce e sparisce. E subito il convoglio si blocca dopo averlo investito. Come poteva essere in quel momento davanti al treno se pochi istanti prima era lì con me e nell’ultimo vagone con lei? E come poteva sapere che la lettera era volata via? Evidentemente non aveva ancora potuto deporla sotto un sasso sulla massicciata. Visto che stava con noi sul treno. In ogni caso non avrebbe avuto il tempo per farlo. Visto che tra la sua scomparsa nel corridoio e l’arresto del treno non erano trascorsi che pochi secondi. E a questo punto mi è tornata in mente una frase sulla lettera che ha pronunciato prima di sparire (e che avrà detto anche a lei): “E’ volata via col vento del treno”. Ma il vento viene dopo che il treno è passato. O almeno mentre sta passando. Lui sapeva che la lettera sarebbe volata via prima che volasse. E che finiva nel cespuglio sotto il cavalcavia dove rischiava di non esser più ritrovata. O non ritrovata in tempo per collegarla al suicidio. Ma in quel momento l’uomo era già stato…
Era già morto!, si illumina il prete.
Annuisco. Un altro brivido mi corre lungo la schiena e mi sale fino ai capelli.
Insomma stava con me e stava con lei. E contemporaneamente stava (anzi era già stato prima), con le mani sugli occhi davanti al treno. Allora non è solo una bilocazione: è una tri…
Ora non voglio pensare cosa sia, mi interrompe il prete. Sembra rinfrancato. L’importante è un altro fatto: se il trapasso era già avvenuto il significato della sua apparizione a lei e a me cambia radicalmente!
In che senso?
Ma è chiaro! Giustifica la presenza divina. E evidente che prima di morire il suicida ha avuto un pentimento. All’infinita misericordia basta un attimo. Un minimo di grazia sufficiente a salvarsi è sempre concesso ai peccatori. Nolo mortem impii: non voglio la morte dell’empio. Lo dice la Bibbia. E perciò Dio ha potuto manifestarsi attraverso di lui. Per aiutarlo a far ritrovare la lettera. Così tutto ha un senso.
Anche l’apparizione a uno che non crede?
Non sarebbe la prima volta. Ma poi non è vero che lei non crede. Il fatto che lei parli ai suoi morti non è superstizione o animismo E’ il segno di una predisposizione. Quel poveretto non poteva saperlo. Ma Dio sì. Per questo si è manifestato anche a lei attraverso il corpo disincarnato del suicida, ormai liberato dal corpo materiale.
Taccio riflettendo. Dio dunque si sarebbe interessato a me. Ma poi penso al passeggero comparsomi nello scompartimento:
Aveva le scarpe infangate e il vestito bagnato dalla pioggia. Era un fantasma perfettamente reale.
Fantasma lo considero termine improprio. Da spiritismo. Qui stiamo parlando di un fenomeno trascendentale. Evidentemente il suicida voleva pensarsi vestito e reale. E’ Dio così l’ha fatto comparire. Una prova che il pensiero e la volontà possono essere forze plasticizzanti ed organizzanti. Ma solo grazie all’intervento divino.
L’ha visto anche il capotreno.
C’è tutta una casistica di fenomeni non soggettivi. Che non c’entrano con la cosiddetta allucinazione collettiva. La bilocazione è però un evento rarissimo. Tra i più rari nell’agiografia. Potrei citarle comunque San Filippo Neri e Santa Caterina de’ Ricci. E Sant’Antonio da Padova. E anche Sant’Alfonso de’ Liguori. Le ripeto: sono eventi rarissimi. Direi anzi che i casi di bilocazione sono tra i più rari. E tra i più controversi fra i teologi. San Tommaso li considera un assurdo metafisico. Dice che può essere possibile la presenza essenziale (Dio è in ogni luogo) e sacramentale (l’eucarestia), di un essere in più luoghi. Invece la presenza corporale (che è legata alla quantità), non può che essere circoscritta in un solo luogo. Soltanto la grazia mistica consente la formazione di un’entità rappresentativa vicaria del reale. Con l’aiuto di Dio.
Il prete si ferma perplesso. Però questo è un caso completamente anomalo: apparentemente nessuna grazia mistica e due presenze vicarie. Se interpreto bene l’evento.
A questo punto alza ancora le braccia e dice ispirato: Dio mi ha fatto il dono di provarmi l’esistenza e la sopravvivenza dello spirito umano! E la Sua infinita misericordia!
Il prete è commosso. Estasiato. Si inginocchia nello scompartimento. Si segna e si raccoglie in preghiera.
Lo osservo silenzioso e imbarazzato. Resta così a lungo. Si segna ancora e si rialza.
Dovrò relazionarne al vescovo. Dovrò fare anche il suo nome. Lei è un testimone importantissimo. Anche perché non credente. O che crede di non essere credente.
Beh, obietto io, quello che è successo è senza dubbio una cosa straordinaria (anche se per me incomprensibile) e volentieri testimonierò. Ma questo non significa…
Non è sufficiente a convincerla dell’esistenza di Dio?
Sono imbarazzato. Le domande troppo dirette mi mettono sempre in imbarazzo. Anche perché non sono bravo a trovare subito gli argomenti per ribattere. E poi a me non piace mai assumere posizioni nette (specie di fronte ad un tema così impegnativo come l’esistenza di Dio). Io purtroppo non… Sulle prove sperimentali dell’esistenza di Dio ho molte… O ci si crede o… Allargo le braccia.
“Non render sordo l’orecchio del tuo cuore”, dice Sant’Agostino. Lei non crede nemmeno all’esistenza dell’anima e del soprannaturale? Guardi che su questo erano (e sono) d’accordo in tanti: dagli uomini primitivi ai greci ai latini agli africani agli indù. In un certo senso anche i buddisti. E anche i suoi giapponesi. Varia solo il nome che gli si dà. Gli sciamani del Messico chiamano il trascendente “seconda attenzione”. Ma la sostanza non cambia. Siamo sempre lì. Pensi a Montale. Un poeta molto scettico. Che però pregava i suoi morti “perché preghino per me”. Lo ha scritto in una poesia. Lei parla con i suoi morti. Ha una religione dei Morti. E io le ripeto: non le pare che sia una conferma che lei crede nell’oltretomba? Nella vita eterna?
Altra domanda diretta (ma stavolta devo trovare una risposta adeguata).
Io non chiedo ai miei morti di pregare per me. Quel poveraccio che s’è ammazzato ha detto la cosa giusta: che ai miei morti io chiedo solo cose pratiche e concrete. Protezione non per me ma per i miei figli e nipoti. Mi aveva scelto evidentemente per questo. Perché non sto sulle tombe a fantasticare sui problemi dell’aldilà. Mi ha scelto perché con i miei morti ho un rapporto di concretezza. Pulisco le tombe e mentre strappo le erbacce e tolgo la polvere chiedo cose ragionevoli. Come la protezione dei miei figli e dei nipoti. Potevo essere la persona giusta per ricuperare la lettera.
Insomma: chiedere ai defunti protezione per i suoi cari a lei non sembra un ricorso al soprannaturale!
Ci penso su un momento. Sinceramente non lo so, dico. E azzardo: Sono cose che mi sembrano possibili finché continuo a pensare ai miei morti. Che moriranno veramente solo quando di loro non ci sarà più memoria.
Memoria! Lo so, lo so! Che si muore due volte: la prima con la morte fisica e la seconda quando si è dimenticati. Memoria e non lamenti chiede Simonide per i caduti delle Termopili. Ma lo hanno detto in tanti! Per esempio Halter e James e Schnitzler tra i moderni. Leopardi fa dire alla morte: “Sono nemica capitale della memoria”. Ma Dio non dimentica! Può tacere ma non dimentica. Mi sembra una scappatoia di chi si ostina a non dirsi credente: Santa Monica morendo chiederà umanissimamente: “Ricordatevi di me”. Ma proprio suo figlio Sant’Agostino dirà: “La memoria non basta nella ricerca di Dio”.
Vorrei ribattere con un: “Guardi che io non sto cercando Dio”, invece annuisco: Può darsi benissimo. Forse sono un po’ tutte scappatoie. Anche la mia può essere una forma di superstizione come tante. O la proiezione di un desiderio. Certo, mi tranquillizza. Mi sembra comunque di esserne consapevole. Sì, ne sono consapevole. Non mi faccio troppe domande ma non mi faccio nemmeno illusioni. Guardi che non è un atteggiamento molto diverso da quello di tanti che dicono di credere in Dio. Ma che cercano solo sicurezza.
Dio non è un’assicurazione. E nemmeno un tranquillante. Può essere una consolazione: “E troverete ristoro per le vostre anime” dice Gesù agli affaticati.
Ecco: una consolazione anche per me. Qualcosa in cui posso fingere di credere.
Ma la fede è qualcosa di più. E ben di più! Il prete solleva nuovamente con fervore le braccia e stavolta anche gli occhi al soffitto dello scompartimento. E’ la grazia del Signore. E’ confidenza e abbandono in Dio. Alla Sua provvidenza. Senza aspettare compenso. La fede impegna tutto il nostro essere a vivere con umiltà e letizia nel nome del Signore. E ci guida verso la vita eterna. Altro che memoria! La fede sostiene e guida noi uomini imperfetti. Ci aiuta a difenderci dal peccato che è la vera morte. Pensi a Giobbe quando dice: “Lode all’Onnipotente che ha riempito d’amaro la mia anima”. Giobbe stava molto peggio di quello sventurato che si è ucciso. Eppure continuava a lodare il Signore. Io non mi vanterò certo di possedere la fede al massimo grado. Sarebbe un grave peccato d’orgoglio. Ma è la strada su cui cerco momento per momento di avviarmi. Con l’aiuto di Dio. E più che mai dopo l’esperienza di oggi!
Finalmente il treno si rimette in moto. Più presto del previsto.
Dopo un po’ ricompare il ferroviere. Mentre mi fora il biglietto mi riconosce.
Gli dico: Lo sa che il suicida era l’uomo che lei inseguiva? Era seduto lì.
Aveva parlato anche con me, conferma il prete. Fa un gesto di sconforto e non aggiunge altro.
Probabilmente quel disgraziato non aveva il biglietto. In quel che è rimasto del vestito non l’abbiamo trovato. E il capotreno scuote la testa. Pensa solo al biglietto. Non si rende conto della contraddizione. Della presenza contemporanea del viaggiatore senza biglietto sul treno e tra le rotaie.
Sa, aggiunge, che era proprio del paese vicino al punto in cui s’è buttato sotto? L’abbiamo capito dalla lettera. Per questo siamo ripartiti presto: è potuto venire subito un magistrato del posto con i carabinieri.
Lo trattengo mentre se ne sta andando:
Posso sapere cosa c’era scritto nella lettera?
Chiede perdono a tutti. Aveva moglie e figli. La moglie doveva averlo lasciato. Non ha scritto a lei ma al presidente dei donatori di sangue. Era un donatore. Chiede perdono anche a lui. Non si capisce bene. Parla di errori. Pare che l’avessero espulso dall’associazione. Pasticci col sangue infetto. Chiede scusa anche a quei disgraziati che ha infettato. Ma si rende conto? Un donatore di sangue con l’aids. Non lo dice chiaramente ma non c’è dubbio: aveva l’aids!
Il ferroviere è spaventato e scandalizzato: Con questi donatori oggi non sai cosa ti può capitare se non stai attento. Se io avessi mai bisogno d’una trasfusione mi cercherei degli amici sicuri col gruppo sanguigno giusto e controllati il giorno stesso. Altro che donatori! Quello non doveva avere la testa a posto. Nella lettera dice che non sa come si era infettato. Si figuri. Quello era certamente… (il capotreno si porta la mano all’orecchio e scuote il lobo). Bello e buono. E probabilmente anche drogato. Con moglie e figli! Il mondo oggi funziona così.
Andiamoci piano, obietta il prete mentre porge il biglietto alla foratura. I donatori di sangue sono persone benemerite. Che poi quel poveretto fosse infetto è una cosa gravissima ma ormai non possiamo prendercela con lui. Dobbiamo provare pietà per lui. Stiamo parlando di un morto. Ha sbagliato a uccidersi ma la misericordia di Dio è infinita. E poi non è detto che fosse drogato. Malato sì. Questo si vedeva. Ma drogato è un’ipotesi da verificare. E quanto al resto…
Certo, certo, risponde subito il capotreno richiamato alla ragionevolezza e alla pietas, Lei ha ragione. Ma non immagina quanta gente balorda si incontri oggi sui treni.
Anch’io vedo ogni giorno tanti che sbagliano, ribatte il prete, ma questo non deve farci pensare che tutti sbaglino. E poi io sono certo che prima di morire si è pentito.
Il ferroviere non sa cosa rispondere. Fa un gesto vago d’intesa. Saluta e se ne va.
Sono stato zitto ad ascoltare e sento che me ne vergogno. Avrei potuto intervenire anch’io. Il suicida (o il suo fantasma o il suo doppio o triplo che fosse), mi aveva parlato. E nelle sue parole avevo sentito l’innocenza. Una vittima innocente di un dramma che lo aveva annientato. Questo mi era parso di capire.
Non doveva essere un omosessuale, e nemmeno un drogato, intervengo ora per riparare in qualche modo. Se non altro con il prete. Chissà come si era infettato. Ha detto: “Una storia incredibile”. Va a sapere cosa gli era successo. Un ago? Una distrazione? Una donna, anzi, un uomo? Ha parlato anche di ingenuità e di leggerezza. Ci sono tanti modi di essere ingenui e leggeri. O forse ingenuo era stato lui e leggeri gli altri. Leggeri tanto da dar fiducia a uno che donava sangue da venticinque anni. In un paese si conoscono tutti. Tutti sanno tutto di tutti. O credono di saperlo. Credono di potersi fidare.
Pensi a quelli dell’associazione, aggiunge il prete. Saranno rimasti di sale quando si saranno accorti che quel poveretto aveva l’aids (se è giusta l’ipotesi del controllore). Chissà che panico. Che scambi di accuse. Che pettegolezzi. Un’esistenza distrutta dalle calunnie prima ancora che dal male.
A me sembrava provato all’estremo ma lucido. Lucido forse perché già… (sto cercando parole alte), perché già ombra. Liberato dalla confusione dell’esistenza.
Il prete annuisce. E’ assorto. Ora s’è abbandonato sul sedile.
Pensandoci meglio, proseguo incoraggiato, quell’ombra mi sembrava più che lucida. Mi viene in mente una frase. Ha esclamato improvvisamente (forse l’ha detto anche a lei): “Ora so com’è accaduto”.
Sì, dice il prete drizzandosi, me la ricordo questa frase. Sento ancora lo stupore nella sua voce. Il modo in cui ha detto “ora so”. Come se la scoperta la stesse facendo in quel momento. Ma certo! Ora che era morto vedeva com’era stato infettato. Questa è un’altra prova che noi abbiamo visto lo spirito del suicida. Non la proiezione di un vivo ma un’entità spirituale sorpresa nell’attimo in cui (staccata dal proprio corpo), scopriva di poter vedere la verità su quel corpo. Grazie all’aiuto divino.
Mi ricordo, dico io, che ha aggiunto: “Ormai non posso fare più niente”.
Giusto, assente il prete, non si può cambiare il passato. Nemmeno Dio lo può. San Tommaso dice…
Però lui, lo interrompo per non perdere il filo del mio ragionamento, è riuscito a fare qualcosa. E’ riuscito a far ritrovare la lettera attraverso di me. Ha potuto modificare un tratto piccolissimo ma per lui importante della realtà.
Non ha modificato niente della realtà, obietta il prete. Per modificarla avrebbe dovuto far tornare la lettera sotto il sasso sulla massicciata. Ma questo non era possibile. Trovare la lettera è stato un passo successivo. Lui ci ha semplicemente suggerito di fare questo passo. Il fatto che l’abbia detto sia a lei sia a me è una riprova dell’esistenza del libero arbitrio. Io ho scelto di pregare per la sua anima prima di cercare la lettera. E lui (e attraverso di lui Dio), ha previsto questa probabilità. E di conseguenza ha provveduto. Tutto quadra perfettamente.
Il prete si alza e prende la borsa. Stiamo per arrivare alla sua fermata. Ci scambiamo gli indirizzi. Mi saluta con un’ultima esortazione a riflettere e a credere. Ora che ho avuto il raro (anzi rarissimo!), privilegio di una prova. Aggiunge in tono conciliante: Guardi comunque che essere religiosi non è un obbligo: è una fortuna. E non lo dico io (porta la mano alla bocca come se volesse farmi una confidenza molto riservata), l’ha detto don Milani.
Se ne va illuminato dalla sua fede confermata dagli atti concreti. Dall’aver visto.
Il treno riparte. Adesso sono solo. Devo ripensare con calma alla cosa straordinaria che mi è capitata. Non mi accadrà più di assistere ad un evento simile. Devo riordinare i fatti in tutta la loro successione. Ricordarmi esattamente tutto prima di dimenticarmene. Annotarmi tutto con la massima precisione.
E mi accorgo che non ho né penna né carta! Come con la macchina fotografica e il registratore. Quando servirebbero veramente non sono mai sottomano. O manca la pellicola o la cassetta. O la pila.
Mi sistemo alla meglio sul sedile e cerco di mettere ordine nella memoria. Senza distrarmi con movimenti inutili o guardando fuori.
Devo innanzitutto liberarmi la mente da quello che ha detto il prete. Cose che avranno la loro importanza ma che adesso non mi servono. E pensare al fatto in sé. Alla sequenza dei fatti. E non a me che ne sono stato testimone.
Comincio a ricostruire l’accaduto partendo dal momento in cui l’uomo mi è comparso nello scompartimento. Devo analizzare tutto. L’aspetto. Le parole. Le frasi esatte con il tono della voce. Importantissimo per ricordare bene.
Sapeva che la lettera sarebbe volata via prima che volasse. E che finiva nel cespuglio sotto il cavalcavia. Questo è indubbio. Il treno non era ancora passato sul cavalcavia nel momento in cui l’uomo (o la sua ombra), parlava con me (e anche con il prete). Evidentemente la lettera era ancora al suo posto trattenuta da un sasso. E l’uomo era contemporaneamente davanti al treno che stava per investirlo.
Dunque non era già morto come avevamo deciso col prete: era ancora vivo!
Mi stringo la fronte con le mani perché quel po’ di ragionamento che sto tentando di fare non mi si confonda nella testa.
Dunque: l’uomo è lì pronto per farsi travolgere. E in quel momento sente chissà come che la lettera sta per volar via. Allora manda sul treno un suo fantasma (chiamiamolo così ora che il prete non c’è). E non è un’esclusiva per me: lo divide in due per farlo parlare sia col prete sia con me. E lo vede anche il capotreno che lo insegue per chiedergli il biglietto.
Il fantasma comparso nel mio scompartimento mi fa tutto il suo discorso e mi dice che ha scelto me. E non mi parla del prete al quale sta facendo contemporaneamente lo stesso discorso con le debite varianti (e senza dirgli di me). Dunque ha avuto anche il tempo di sceglierci (sia pure tra pochi viaggiatori) e di prevedere che il prete si sarebbe fermato a pregare. Essendosi inoltre informato (per quanto riguarda me), che non sono credente e di come mi comporto con i miei morti.
Informato da chi? Dai miei morti? Visto che a lui non interessava che io credessi in qualche Dio ma solo nei miei morti? O informato da un Dio al quale non importa di essere creduto? Da un Dio benigno e pragmatico al quale basta che uno sappia fare le cose giuste nel momento giusto?
E la cosa giusta era scendere dal treno fermo e occuparsi subito della lettera. Invece di correre a curiosare con gli altri sotto un vagone abbandonandosi a scene di raccapriccio. O di raccogliersi in preghiera come ha fatto il prete. Azione certamente utile (e gradita a Dio), ma non prioritaria.
Però un fantasma viene dopo un vivo. Un vivo non può mandare un fantasma ma solo un suo doppio. Se ci riesce.
Dunque un vivo che manda contestualmente un suo doppio (anzi due doppi), a correggere un proprio errore non riparabile da morto… Mah. Un doppio così sapeva troppe cose di me. Anche questa non era un’ipotesi plausibile. Ma cos’era plausibile? Forse aveva ragione il prete.
Benché. A pensarci bene: uno che riesce a sdoppiarsi con tanto realismo può anche essere capace di accedere in un lampo ad informazioni riservatissime. Come il fatto che io non sono credente e che parlo con i miei morti.
Il prete aveva risolto il problema arguendo che un attimo prima di morire il suicida doveva essersi pentito. Giustificando l’intervento di Dio. Che può (quasi) tutto.
E se tentassi un’altra spiegazione? Per esempio: che nell’attimo di intermittenza tra la vita e la morte il suicida avrebbe potuto sgattaiolare in uno di quei paradossi spazio-temporali ai quali ci ha abituato lo scientismo della fantascienza. Al di là di ogni contestualità e di ogni logica consequenziale. Al di là anche delle cause e dei loro effetti. Ecco un’altra ipotesi con un grado di plausibilità non molto diverso. E altrettanto irrazionale. Non suffragata però dall’imponente apparato esplicativo elaborato in tanti secoli di pensiero e di fede. E men che meno (credo), dagli ultimi sviluppi della computazione quantistica.
Quanto tempo era trascorso dall’ultima fermata al momento in cui il convoglio si era bloccato dopo aver travolto il suicida? Almeno venti minuti. Se non di più. L’uomo che stava per essere stritolato aveva avuto nozione di qualcosa che non era ancora avvenuto (la lettera che volava via: diciamo un secondo nel futuro). E contemporaneamente aveva avuto la capacità di tornare indietro nel tempo per un tratto di venti minuti e più. Informandosi di un sacco di cose su di me e anche su altri viaggiatori. Per poter scegliere la persona più adatta (secondo lui), a ricuperare la sua lettera.
Si era fatto investire. Era morto. E, da morto, si era dato subito da fare per rimediare ad un ultimo errore commesso al limite della vita. Facendosi aiutare dalla persona giusta. E cominciando a cercarla prima ancora di morire.
Questo dunque possono fare i morti messi alle strette: andare avanti e indietro come gli pare nei pensieri dei vivi. E nel tempo. Almeno per una ventina di minuti.
Mi piacerebbe sapere perché non possono semplicemente rimettere a posto sotto un sasso una lettera fatta volare via da un colpo di vento. Senza tante complicazioni. Pare che San Tommaso abbia detto che non si può. E tutto il resto si può?
Ma io séguito a ragionare secondo i consueti parametri. Di cause e di effetti. Di vita e di non vita. Di Dio e di non Dio.
Secondo quali variabili sconosciute ha potuto muoversi il donatore di sangue mentre io sedevo nel mio scompartimento di seconda classe?
Variabili nascoste e inconoscibili d’un universo insondabile. Nel quale (a quanto pare) non si può comprimere troppo il tempo. Sentivo ancora la fretta del suicida mentre cercava di darmi in poche parole le istruzioni per ritrovare la sua lettera. Anche per lui dunque il tempo stringeva. Un universo, comunque, in cui c’è ancora spazio per lo stupore di un morto. Perché era autentico stupore quello del doppio che scopriva di sapere come il suo povero corpo somatico fosse stato infettato.
Il treno viaggia verso la sua e la mia destinazione. E io mi domando se in questo universo che ospita un morto che si stupisce ci sarà spazio anche per un vivo che spera. Per la mia speranza. Che i miei morti possano proteggere i miei figli e i loro figli. La sola cosa che chiedo. L’unica.
O forse per coloro che abitano la casa delle ombre è compito più difficile allontanare i mali dai vivi che far ritrovare una lettera volata via per un colpo di vento.
Mi consola essere stato utile almeno per questo. Almeno per una volta. Aver posto riparo ad un minimo sbaglio apparentemente senza significato. Nell’ultimo istante. L’attimo prima che diventasse un errore irreparabile.