Altre Storie – Telestorie
Dolce casa
Un’automobile si ferma davanti a una casa con giardino, secondo l’incipit classico nel novanta per cento dei film che iniziano davanti a una casa con giardino. Stavolta la casa non è una villetta monofamiliare, ma una palazzina condominiale di tre piani.
Dall’auto scende una giovane donna in tenuta casalinga (maglietta, bermuda, scarpe da ginnastica). Apre il portellone posteriore e tira fuori i sacchetti della spesa, una quantità di sacchetti, tentando di reggerli tutti in mano. Dal più pericolante esce un vasetto di marmellata, che cade a terra e si spacca. La donna posa i sacchetti e cerca di ripulire come può. Raccoglie i resti del vasetto e si taglia un dito (il medio destro) con un pezzo di vetro. Con un gesto di impazienza si succhia la ferita (e la marmellata appiccicata sui polpastrelli) e intanto butta i cocci nel bidone della spazzatura accanto al cancello. Si volge a riprendere la spesa e scorge un gatto che si è impossessato di una grossa bistecca. Gridando fa un gesto per scacciare il ladro ma sdrucciola sulla marmellata e cade battendo il sedere. Frattanto, attirato dall’odore della carne, è sopraggiunto un cane che cerca di strappare al gatto la sua preda. Il gatto reagisce soffiando e arruffando il pelo. Rissa tra i sacchetti mentre la donna, da seduta, cerca invano di scacciare i due animali. Tutto si rovescia sul marciapiede. Il gatto scappa trascinando il bottino stretto tra i denti e si rifugia sotto un’altra macchina per mangiarselo in pace, inseguito dal cane, che non riesce a infilarsi nello spazio troppo stretto e abbaia furiosamente.
La donna si rialza dolorante. Con la mano ferita si massaggia il fondo schiena e macchia i bermuda di sangue. Costatandolo, alza gli occhi al cielo, si succhia nuovamente il dito e con l’altra mano fa un cenno come a dire: “Che giornata!”. Si china a raccogliere la spesa e si accorge che anche lungo una coscia le scorre un filo di sangue. Cadendo, si era seduta su una scheggia di vetro che le ha procurato una seconda ferita ed è rimasta conficcata nel gluteo. Se la toglie torcendo la bocca per il dolore. Tutto il sedere dei bermuda è sporco di sangue. Guarda la scheggia e la scaglia via con rabbia. Poi si pente, va a recuperarla e la deposita nel bidone. Un passante si ferma. E’ un barbone. Aiuta la donna a rimettere le cose nei sacchetti, ma intanto si infila nel giubbotto stracciato un barattolo di conserva, una stecca di cioccolata, una confezione di caffè e una di uova. Un uovo fuoriesce dal contenitore e si rompe. Al rumore la donna si avvede del nuovo furto. Grida e cerca di picchiare il barbone ma scivola, stavolta sull’uovo, e cade ancora. Urlo rabbioso di dolore. Il barbone se la fila.
La donna si solleva, grida al ladro, inveisce. E’ ammaccata e sporca, ma non ha altre ferite. Alza le spalle sconsolatamente e riprende a radunare i sacchetti. Stracarica, apre il cancello e va zoppicando lungo il vialetto che attraversa in leggera salita il giardino.
Una porta di legno massiccio è appoggiata al muro esterno accanto all’ingresso, evidentemente smontata. La donna, presa dalle sue disavventure, non ci fa caso e incede con fatica verso il vano d’entrata che crede aperto, e va a sbattere con violenza contro una invisibile lastra di vetro. La faccia le si deforma nell’impatto. Lascia cadere i sacchetti, si porta le mani al viso e si piega in avanti. Intontita, traballa. Il naso le sanguina. Il contenuto dei sacchetti si è sparso intorno. Una bottiglia d’olio si è rotta e il liquido ha formato sulla soglia una pozza scivolosa. Dieci mele sono corse in fila lungo la canaletta di scolo dell’acqua piovana e sono finite sull’erbetta del prato. Quattro barattoli di pelati sono rotolati nel vialetto fino al cancello, inseguiti da tre vasetti di sottaceti, otto scatolette di tonno, sei bottiglie d’acqua minerale e una quantità di carta igienica. Rigatoni usciti da un pacco si sono disseminati sull’impiantito.
Qualcuno ha sostituito la porta di legno con una maledetta porta di vetro. Sulla quale sono stati tracciati malamente con un pezzo di cera segnali provvisori di attenzione, ma troppo sottili e troppo in basso – quasi a livello dei piedi – per essere scorti da una persona distratta da altre preoccupazioni e, per di più, abituata a pensare che se la solita porta non è chiusa vuol dire che è aperta. Autori della sostituzione devono essere stati operai evidentemente inetti, che ora però non sono lì. Ultimato il montaggio della vetrata, si sono allontanati per farsi una birra. Sul pavimento dell’atrio giacciono abbandonati martelli, cacciavite, un trapano, una livella, un metro, una cassetta di attrezzi. Contro quegli strumenti di lavoro la donna ha un gesto di muta imprecazione.
Dal basso salgono – una dopo l’altra, in lettere bianche – le parole DOLCE CASA, come fossero scritte sulla lastra invisibile dell’ingresso.
La donna contempla il disastro della spesa. Cerca tra le cose cadute. Trova un rotolo di carta igienica rosa e sfila varie spire con cui si tampona il naso sanguinante. Il rotolo le sfugge e, svolgendosi, corre via fino alla siepe che bordeggia il prato lasciandosi dietro una scia rosa. La donna lo segue con lo sguardo. Sosta un momento per riprendersi. Il naso non smette di sanguinarle. Attorciglia un po’ della carta rimastale in mano e ne fa due tappi. Se li infila nelle narici. Si accinge con un sospiro a radunare il ricuperabile, schiacciando rumorosamente i rigatoni sparsi in giro. Uno le fa quasi perdere l’equilibrio. Cerca di disperdere gli altri con pedate irose. Ripone tutto nei sacchetti, che riunisce e solleva per entrare finalmente in casa. Ma sdrucciola sull’olio versato e ricasca rovinosamente. L’osso sacro contro il marmo della soglia. Che male. Si accascia, immagine vivente della sofferenza.
Solleva il capo, si tasta l’osso colpito e si guarda anche il gomito destro. E’ finita su una scheggia della bottiglia rotta e si è di nuovo ferita. Si riabbandona, comincia a gemere.
Ma occorre reagire in qualche modo. La spesa, almeno, è rimasta nei sacchetti. Cerca un altro rotolo di carta igienica. Lo svolge, si fascia come può il braccio, e anche il dito. Si rimette lentamente in piedi. Raduna ancora una volta i sacchetti. Aggira la pozza d’olio, spinge con malagrazia la porta di vetro, va all’ascensore, lo chiama. Entra con difficoltà. Preme il bottone del terzo piano. Un sacchetto ostacola la chiusura della porta. Lo libera con uno strattone, ma la plastica si lacera. Dallo strappo esce un tetrapak di latte. Si incastra nei battenti che, serrandosi, lo schiacciano fino a farlo scoppiare. Il latte allaga il fondo dell’ascensore, raggiunge le scarpe, bagna le suole. La donna se le lascia bagnare. Mentre sale, si guarda nello specchio: faccia tumefatta, due tappi nelle narici, anche un piccolo taglio a un sopracciglio a causa dell’impatto nel vetro d’ingresso. La fasciatura sommaria del braccio si sta allentando. Il nastro di carta igienica pende miseramente.
L’ascensore si apre. La donna arranca verso la porta del suo appartamento. Dietro di lei, una fila di peste di latte. Posa sul pianerottolo la spesa e cerca le chiavi. Fruga in tutte le tasche. Non le trova. Esasperazione. L’ascensore è ancora al piano. Si affretta come può a raggiungerlo strascinando la fascia di carta, entra nella cabina, i piedi inevitabilmente nel lago di latte. Scende, va all’ingresso, cerca con gli occhi. Le chiavi sono lì, accanto alla gora d’olio. Si piega a raccoglierle con smorfie di pena, l’altra mano sull’osso sacro. Torna all’ascensore, risale, apre la porta di casa. Entra con alcuni sacchetti, tra cui quello lacerato. Non si accorge che ne rotola fuori una scatola di pelati. Quando ritorna per prendere il resto della spesa, posa un piede sul barattolo e vola in aria, ricadendo pesantemente. Resta così, lunga distesa, le gambe che sporgono fino alle cosce nel corridoio. Ha perso una scarpa. Si tende a raccoglierla. Si toglie anche l’altra e le scaglia entrambe in casa, oltre la propria testa. E’ affranta.
Rumore di ascensore che si apre. Un’anziana coppia esce indignata scalpicciando, guardandosi le scarpe bagnate di latte. La vecchia ha raccolto il tetrapak afflosciato. Chi lo ha lasciato nella cabina? E chi ha sporcato il corridoio? I due passano davanti alla porta aperta, guardano le gambe della donna circondate dai sacchetti. “Che roba!”, sembra dire la vecchia sdegnata. Anche il marito scuote la testa con aria di rimprovero. Scorge il barattolo di pelati finito lontano. Lo raccoglie e lo posa con cura accanto ai sacchetti, uno dei quali contiene due bottiglie di vino. Osserva con severità la scena, indugiando un po’ sulle gambe (che non sono male). Scuote nuovamente la testa. Starà virtuosamente sforzandosi di pensare: “Ubriaca già a quest’ora!”. Raggiunge la moglie, insieme entrano nel loro appartamento dopo essersi puliti a lungo con stizza le scarpe sullo zerbino. Prima di chiudere la porta, il vecchio getta un’ultima lunga occhiata alle gambe della coinquilina e scuote ancora la testa.
Il corridoio è tornato deserto. Si vedono solo le gambe della donna distesa nel vano della porta, metà dentro e metà fuori, tra i sacchetti, la scatola di pelati, le peste di latte. Silenzio.
Un piede si muove, poi una gamba. Due mani si appoggiano allo stipite, compaiono la testa e le spalle. La donna guarda i sacchetti sparsi e la scatola di pelati. A un tratto afferra tutto e, sempre restando seduta, lo sospinge in casa con i piedi. Si trascina balzelloni all’interno, chiude la porta a calci e camminando carponi fa avanzare la spesa sul pavimento fino alla cucina. Aggrappandosi alle sedie e ai mobili, si rimette in piedi, raggiunge il bagno.
Lo specchio mostra un viso sempre più sfigurato. Il naso paurosamente gonfio, il sopracciglio tagliato, vasti ematomi attorno agli occhi e sulla fronte. E poi l’osso sacro: come avesse un coltello piantato in fondo alla schiena. Si toglie i tamponi dalle narici, le bende dal braccio e dal dito. Bagna un asciugamano, si pulisce del sudiciume e del sangue raggrumato. Apre un armadietto, cerca l’occorrente per medicarsi ma è nervosa, ci vede male. Fa cadere flaconi, vasetti, bende, forbici. Una boccetta di mercurocromo si rompe, il liquido arrossa la conca del lavabo, le sporca le mani e schizza anche sulla maglietta. Si guarda ancora nello specchio e scoppia a piangere.
Si ricompone. Apre il rubinetto della vasca e torna in cucina. Ha in mano una bottiglia di alcol e un pacco di cotone. Li depone sulla tavola. Si leva la camicetta e la butta su una sedia. Si disinfetta, getta il cotone nella spazzatura. Con gesti automatici toglie le provviste dai sacchetti, le distribuisce nel frigo, nella credenza, negli armadietti, nei ripostigli, guardandosi ogni tanto le ferite che continuano a sanguinare. Raduna i rotoli di carta igienica e li porta in bagno. Si spoglia, entra nella vasca e si insapona. Si leva in piedi per risciacquarsi con la doccia a telefono, ma scivola e batte con violenza un ginocchio. L’acqua trabocca dalla vasca e inonda il bagno. La donna urla, picchia rabbiosamente con le mani sull’acqua, spruzzandola in giro, mentre la doccia incontrollata sparge altra acqua e completa l’inondazione. Possibile che stiano capitando tutte a lei?
Chiude la doccia, esce dalla vasca con smorfie di dolore, traballa sul pavimento ma evita un nuovo capitombolo. Si avvolge nell’accappatoio, lasciandovi tracce di sangue. Trova dei cerotti, se li applica sul dito, sul gomito, sul sopracciglio, sulla natica. Ha la testa bagnata. Accende il fon, si siede cautamente (l’osso sacro le dà fitte lancinanti), sulla sponda della vasca ancora piena d’acqua e comincia ad asciugarsi i capelli. Ma il fon le sfugge e cade nell’acqua. Corto circuito, salta la corrente.
Un urlo di disperazione. La donna si trascina in cucina asciugandosi la testa con un asciugamano. Il contatore è in fondo ad uno sgabuzzino buio, nel quale non si vede niente anche se si lascia la porta aperta in pieno giorno. Serve una candela, dev’essercene una in qualche cassetto. Rovista, la trova, l’accende, la fissa su un piatto, va nello sgabuzzino. Scatto a vuoto dell’interruttore, ancora in corto circuito. Già, occorre prima staccare la presa del fon che giace immerso nell’acqua. Esce dallo sgabuzzino, posa la candela accesa sul tavolo della cucina, va in bagno, stacca la spina ed estrae dalla vasca il fon gocciolante. Lo scuote, lo posa su un ripiano. Poi si gira ma inciampa nel cavo e piomba sul pavimento bagnato trascinando con sé un asciugatoio su cui era stesa ad asciugare della biancheria, che finisce nell’acqua della vasca. La donna resta stesa nel bagnato, guarda nel vuoto, non ha più parole.
Dopo un po’ si risolleva penosamente e si trascina in cucina, riprende la candela, va nello sgabuzzino, fa scattare l’interruttore, torna la corrente, il motore del frigo si rimette in moto. Ora può alfine posare il piatto con la candela ancora accesa sul tavolo, con un gesto liberatorio, ma troppo brusco: la candela cade dal tavolo col piatto, che va in pezzi. Per trattenerli la donna ha urtato la bottiglia dell’alcol, che è andata anch’essa ad infrangersi sul pavimento. La candela è rimasta accesa e il liquido prende fuoco paurosamente, la vampa raggiunge la tovaglia. Bisogna subito picchiare freneticamente sulle fiamme con la prima cosa che viene in mano, la maglietta. Che si incendia a sua volta. La tovaglia, strappata dal tavolo e sbatacchiata sul pavimento, serve a spegnere l’incendio.
Piccolo incendio, ma nello spegnerlo la donna si è ustionata. Butta in pattumiera con rabbia la maglietta annerita. Basta! Singhiozzando, prende scopa e paletta. Vorrebbe far pulizia, ma è troppo agitata e dolorante in tutto il corpo. Mentre cerca, scuotendo la testa sconsolatamente, di riporre scopa e paletta, scivola con i piedi scalzi sul pavimento ancora umido d’alcol. Si aggrappa alla vetrina della credenza che rovina su di lei, travolgendola. Fragore di vasellame e di vetri rotti. Silenzio.
Fuga all’indietro dal corpo della donna al vestibolo alla porta al corridoio all’ascensore all’atrio alla vetrata al giardino al cancello. Arriva un’autoambulanza a sirene spiegate. Due infermieri scendono con la barella e corrono verso la casa. La porta a vetri è tenuta aperta da due operai (uno mastica pane e salame, l’altro ha una birra in mano). Ascensore. Manovre per infilarvi dentro la barella. Terzo piano. La porta dell’appartamento spalancata. La coppia dei vicini anziani che curiosa, scuotendo il capo. Un infermiere chiude la porta, su cui è appeso un ramo di vischio.
La porta si riapre. Gli infermieri escono con la donna in barella, la testa e un braccio bendati. Uno degli infermieri parla al cellulare con qualcuno all’ospedale:”E’ una donna. Presenta piccole ferite, leggere ustioni e contusioni. Forse una frattura del sacro, ha battuto almeno tre volte il sedere. Si è infortunata in casa. Pare non grave. Sì, alta sinistrosità, vittima di se stessa, sì, come al solito”. Scendono le scale, attraversano l’atrio, escono dalla porta a vetri sempre tenuta aperta dagli operai. Passando davanti a loro, la barellata solleva una mano. Fa un gesto osceno col dito medio, incerottato ma ben diritto, rivolto contro i due, (che si guardano perplessi) e anche contro l’infermiere che ha telefonato. La porta a vetri si chiude. Sopra c’è scritto: FINE.