Circolo del Cinema
Quando Umberto Eco era una comparsa (2016)
Che ci fai qui?”. La prima volta che Umberto mi fece questa domanda, con aria evidentemente stupita, fu una sera dell’estate 1960, in una lussuosa villa di campagna con parco in qualche parte della Brianza (non riesco assolutamente a ricordare il luogo, e neppure il nome dell’opulento proprietario). Eco era sorpreso di trovare lì l’oscuro impiegato che aveva conosciuto pochi mesi prima in casa del pittore Eugenio Carmi, a Genova-Boccadasse. Gli spiegai che ero venuto da Genova in auto per un rapido saluto a due amici, Monica Vitti e Michelangelo Antonioni, presenti in Lombardia per interpretare e girare, da attrice e da regista, alcune scene di una festa del mondo ricco ed esistenzialmente disagiato della borghesia industriale milanese, per il film La Notte. Lui invece era lì per fare da ospite-comparsa, assieme a Ottiero Ottieri, l’editore Bompiani (per cui lavorava), il Nobel Quasimodo e altri cospicui intellettuali. Della sua presenza di pochi secondi nella Notte resta un fotogramma, ripubblicato nei giorni del cordoglio per Eco, e qui riproposto.
Quelli del film dissero anche a me, già che c’ero, di farmi una comparsata, ma ero tutto vestito di bianco, il mio abito “sparava” e non se ne fece niente. Così passai qualche ora a ballare in una sala deserta con Jeanne Moreau, che aveva finito di recitare e si annoiava. Dopo ogni ballo, la diva andava a cambiare il disco e a piluccare, da un enorme vassoio, un po’ dei suoi prediletti formaggi francesi. Rientrai a Genova all’alba, e alle otto e mezza ero puntualmente in ufficio.
La domanda dell’inizio, Eco me la fece poi altre volte, quando ci incontravamo in strane circostanze, ma intanto eravamo diventati amici e io gli proposi di scrivere degli articoli per una rivista che allora dirigevo. Anni dopo, quando Eco cominciava a diventare famoso, presentandomi a qualcuno, diceva che io ero “quello che aveva pubblicato i suoi primi articoli”. Non sono sicuro che fosse vero: forse pensava ad articoli pagati. Usciti nel 1962, uno riguardava un tema che piaceva a me (e ora purtroppo tornato di attualità): le “Grandi Paure” che hanno nei secoli ossessionato il mondo. Altro articolo verteva su uno dei tanti argomenti da lui preferiti: il rapporto tra la cultura e i fumetti e lo “sdoganamento” di quella presenza imbarazzante tra la cultura alta e quelle basse e bassissime. Quelle spregiate Mid– e Masscult, insomma, termini coniati dall’americano Dwight Macdonald per due nuove categorie estetiche allora in discussione.
Umberto aveva nei miei confronti la condiscendenza indulgente che grandi personalità, anche se intransigenti (e non c’è dubbio che lui, intellettuale totale e ineguagliabilmente dotto, lo fosse) riserbano talvolta agli ingenui e ai meno (o poco) dotati.
Ma qui mi accorgo che, richiestomi di parlare di Eco, ho finito per parlare di me, e me ne scuso.
Tra le frequentazioni cinematografiche di Umberto (penso sia questo l’argomento che può incuriosire i soci del Circolo del Cinema) c’è ovviamente II nome della rosa (1986), il film di Jean-Jacques Annaud tratto (con molti discutibili tagli e varianti), dal suo primo romanzo, tradotto in una cinquantina lingue e venduto in moltissimi milioni di copie in moltissimi paesi. Libro che, secondo critici come Asor Rosa, mescolando l’impianto storico-filosofico medievale con il giallo, rappresentò una rottura con la tradizione letteraria italiana, e non solo. Del successo planetario di quel libro, dei suoi vari livelli di lettura, del fatto che molti lo comprassero ma non tutti lo leggessero, Eco parlava sornione ricordando che lui l’aveva scritto per divertire il lettore, ma che spesso accade che l’opera sia più intelligente del suo autore. E scomodava i concetti di sociologia del gusto o meglio della fama. Nel film il suo nome non compare, sembra per un equivoco.
Altra pellicola (uso un termine ormai obsoleto) da segnalare è Quando le donne avevano la coda, girato nel 1970 da Pasquale Festa Campanile, ambientato nell’età della pietra e interpretato da una tribù di specialisti della commedia da ridere: Buzzanca, Montagnani, Mulè, Toffolo e Giuffrè. Un gruppo di cavernicoli vi incontra per la prima volta una donna, un bel pezzo di primitiva come Senta Berger. Di questa operina comica (che volentieri sconfina nel pecoreccio), il Mereghetti dice che Eco fu co-atore del soggetto, non citato però nei titoli. Ancora una volta. Ma io mi ricordo che lessi benissimo sullo schermo: “da un’idea di Umberto Eco”. Una delle tante testimonianze del lato ludico-ironico-goliardico cui il filosofo e semiologo onnisciente e trasversale amava volentieri cedere, con la sua consueta elegante leggerezza, (il pecoreccio lo aggiunsero altri sceneggiatori romani).
Ho assistito varie volte a certi spettacolini che Umberto inscenava in casa con la complicità dell’amico di Alessandria e compagno di scuola Gianni Coscia. Costui, provetto fisarmonicista, snocciolava una serie di motivi mentre il compare, futuro professore universitario, vi improvvisava su con levità una funambolica storia nonsense gremita di citazioni colte, di giochi di parole e di corto-circuiti mentali. Un sorprendente esercizio combinatorio che deliziava e basiva noi spettatori.
Resterebbe da parlare – ma ci vorrebbero pagine e pagine – dei vari saggi nei quali Eco analizza col suo sguardo d’aquila l’argomento “Cinema” e il suo linguaggio, ormai indissolubilmente legato al fenomeno del “piccolo schermo” televisivo, alla banalizzazione comunicativa e via discorrendo.
Ma qui si entra in un territorio che va al di là delle mie scarse competenze. Entrano in ballo i sistemi codificati (Eco cominciò a parlarmene sin dal mio primo incontro con lui nella cucina di Carmi), la linguistica e soprattutto la semiotica, disciplina di cui Umberto fu un maestro e che ha costituito uno strumento molto potente anche per una più esatta definizione del linguaggio cinematografico. In questo campo egli fu stimolato (le buone idee – diceva – non nascono mai da sole), dalle ricerche del semiologo francese Christian Metz e dalla pubblicazione (1964) del suo libro Le cinéma: langue ou language?. Testo fondativo e di riferimento, – afferma chi se ne intende – per lo studio dei processi di significazione e di comunicazione che si compiono nell’universo della cinematografia.
Mi limiterò a riportare una definizione aforistica del Cinema secondo Eco: ”un alto artificio, che mira a costruire realtà alternative alla vita vera, che gli provvede solo il materiale grezzo”. Il Cinema, per lui, non sarebbe dunque semplicemente uno “specchio del mondo” (come sosteneva, per esempio, Pasolini), ma molto di più. Le convenzioni dell’articolato linguaggio filmico codificato e la conseguente realizzazione di costrutti dotati di senso e di potere comunicativo, ne farebbero un portatore e testimone di complesse determinazioni culturali.
“Leggete, per favore, ragazzi, e non solo i testi classici ma anche Dylan Dog”, insisterebbe a dire (anche a me) Eco, uomo veramente “libero” e supremamente provvisto di dottrina quanto di curiosità, coscienza civile, ironia e arte del buon vivere. Ciao Umberto.
Carlo Vita
P.S. Mi è stata concessa qualche altra riga di spazio per aggiungere alcune parole (non fuori tema, come si vedrà), su un altro caro amico scomparso. Sto parlando di Eugenio Carmi, l’ultimo grande maestro italiano dell’astrattismo geometrico, mancato il 16 febbraio scorso, la vigilia del suo novantaseiesimo compleanno.
Pittore e grafico genovese molto noto anche a Verona, dove tenne varie mostre e trovò un estimatore di vaglia come l’architetto Arrigo Rudi.
Tra me e Carmi, cui ho accennato all’inizio dell’articolo, si strinse un sodalizio di lavoro, di comuni interessi non solo d’arte e di personale amicizia, nato alla fine degli anni Cinquanta e durato sino alla morte dell’artista. Lavorammo strettamente assieme all’Italsider, allora la maggiore industria siderurgica italiana, lui come responsabile dell’immagine aziendale, io come capo ufficio stampa e attività editoriali. Fondammo poi il Gruppo Cooperativo di Boccadasse-Galleria del Deposito, che ebbe tra i suoi soci artisti come Lucio Fontana e Max Bill.
Realizzammo, tra l’altro, nel 1963, il volume I colori del Ferro, in collaborazione con Eco che ne scrisse la dotta prefazione (si può leggere nella sua raccolta di saggi d’estetica La definizione dell’arte, Garzanti, 1983).
Anche Carmi e Umberto furono fraterni amici. Vi dirò qualcosa che mi pare non si sia letto sui giornali. Malatissimo, il giorno prima di trasferirsi in una clinica a Lugano, dove aveva deciso di chiudere stoicamente con una “buona morte”, Eugenio telefonò a Eco: “Fammelo tu l’epitaffio”. “Mi sa che morirò prima io”, rispose Umberto. Poi successe che Carmi si spense di morte naturale il giorno prima della scadenza prevista, che era fissata per il 17 febbraio, data del suo ultimo compleanno. Ed Eco (che sarebbe mancato tre giorni dopo, il 19), volle scrivere di suo pugno l’annuncio necrologico del caro amico per il Corriere della Sera. “Aveva le lacrime agli occhi – ha detto la moglie Renate – , la prima volta che l’ho visto piangere”.