Eugenio Carmi
Ipotesi sul mio amico pittore (2007)
Il pittore che sta tracciando sulla tela, con matita, riga e compasso, un arco di cerchio spezzato e due quadrati intersecati e fusi l’uno nell’altro, è mio amico.
Vecchio sempre giovane amico, che ho visto tante volte inventare in questo modo le sue figure nel suo studio. E poi assegnare a ciascuno degli spazi, emersi nel nitore di carte e tele, certi colori splendenti. Giustapposti con inesorabile sicurezza, secondo regole che lui solo conosce. E che ogni volta mi stupiscono.
Colori tanto esaltati nel loro sapiente contrasto e nel gioco elementare delle forme, da indurre talvolta il pittore a velarli delicatamente. Come a voler attenuare una bellezza che critici famosi hanno definito lancinante e austera.
Sono qui nello studio del mio amico per uno dei motivi diversi che mi ci portano di tanto in tanto. Per il desiderio di scambiare qualche idea. Per entusiasmarmi con lui di qualcosa che va o per confrontare le nostre ragioni di sdegno a proposito di tante cose che non vanno. E, tra una cosa e l’altra, per guardare i suoi ultimi lavori.
Io li guardo e trovo sempre modo di sorprendermi: essi muovono in me emozioni di cui mi è difficile indagare i motivi profondi.
Nascerà la mia sorpresa dall’inesausta capacità dell’artista di inventare un mondo (o di suggerire un uso diverso e si spera migliore del mondo), proponendo un paesaggio – o un teatro – essenziale di forme e di colori, basato su una drastica “economia di segni”?
O all’origine della mia emozione sarà la carica rivoluzionaria di una pittura che continua pervicacemente a perseguire, al di là di ogni moda e tendenza, l’arduo impegno quotidiano di liberare il linguaggio dell’arte dalle convenzioni?
O percepirò invece, senza accorgermene, in queste opere la stessa intenzionalità che portò Piero della Francesca e Raffaello a strutturare come figure euclidee intersecate il punto focale di capolavori del Rinascimento?
Oppure mi sedurrà la lieve eleganza con la quale il mio amico pittore sa ridurre sempre la realtà alla sua essenza formale? Non diversamente dallo scienziato, che sa raccontare “i cataclismi dell’universo entro una piccola equazione matematica”?
O forse queste sue “geometrie emozionali” – mai vincolate dal calcolo delle misure, ma nate solo dall’intuito – celano il male dell’ansia e i dolori della vita, offrendo però anche il farmaco per curarli, e di questa certezza io posso godere?
Mi sono a un certo punto convinto che tutte le ipotesi contenute in queste domande (e molte altre che dotti critici e semiologi e psicanalisti e sociologi vanno formulando da anni sull’opera apparentemente facile del mio amico), siano in qualche modo giuste.
Il mio amico pittore si chiama Eugenio Carmi.
Mi piace osservarlo mentre compone e interseca le forme e definisce i colori del suo nuovo quadro: un fondo bianco/azzurro – il chiaro del bianco domina ultimamente le sue tele – su cui, stavolta, un quadrato paglierino e un quadrato rosa raccontano la loro storia. E, negli interspazi, linee oblique e accenni di informalità materica, memorie che risalgono da lontane e sempre vive esperienze. Come rievocate da una necessità che non sembra ammettere dubbi (e so che proprio su questa “necessità” Eugenio si sta oggi interrogando).
Sono memorie che in qualche modo posso condividere. Nel senso che più di cinquant’anni fa – da tanto ci conosciamo – lo vidi animare le sue carte e tele di forme-non-forme, di improvvisi segni-gesti, interrotti nel punto giusto dal grido d’un rosso d’un verde o d’un blu. Straordinarie testimonianze di una sensibilità rara, che pochi allora apprezzavano, così che per campare il mio amico dovette farsi grafico.
Attività che subito egli padroneggiò, portandovi l’invenzione di un’estrema semplicità geometrica animata da abbaglianti colori.
Per qualche anno capitò a Eugenio di vivere una stagione schizofrenica: da un lato l’artista dell’informale, dall’altro il grafico delle forme geometriche (sto semplificando, naturalmente, quella fu in realtà per lui, in entrambi i campi, una stagione fervidissima, fondamentale per l’evoluzione del suo mondo di immagini).
Ma per tornare al presente e a me nello studio di Carmi al lavoro, quando la sua nuova opera è finita mi piace stupirmi guardandola, ritrovandovi i segni del passato in equilibrio armonico con quelli di oggi e riscoprendo la soluzione semplice e naturale di un problema compositivo inesauribilmente riproposto.
Soluzione perfetta nella sua ineluttabile arbitrarietà. Essa mi offre un’emozione piena di inconsapevolezza, che ogni volta mi appaga.
Carlo Vita