Storie Brevi – Gesti
Hard Race
Domenica sarò dalle tue parti – gli annuncia il figlio più piccolo – per il campionato enduro invernale. Vieni a vedermi gareggiare sulla spiaggia.
Più piccolo non vuol dire che il figlio sia un ragazzo. E’ ormai un uomo più che maturo, stando all’età, perché va per i cinquantacinque. Ma gli piace continuare il gioco, che ormai da qualche anno è tornato ad essere quello della moto, la passione giovanile. Moto da cross e moto da enduro, che sono due cose diverse, come il figlio gli ha spiegato una volta.
E la domenica mattina il padre è lì, ben coperto, sul litorale, con la macchina fotografica che documenterà l’impresa. Non è una bella giornata, il cielo è grigio, la notte è piovuto e qualche goccia cade ancora, l’aria è umida ma non fa troppo freddo, siamo in febbraio, potrebbe essere peggio.
Eccolo, il figlio, nell’area di parcheggio cosiddetta Paddock, improvvisata sul lungomare dalla Polisportiva Dilettantistica, organizzatrice del campionato. Sta scaricando dal suo furgone la grossa moto di cilindrata 300. Ha già compiuto il rito della vestizione nel costoso abbigliamento supertecnologico a base di plastiche ultralight d’alta qualità, puntigliosamente certificate. Abbondano le fibre di carbonio e di vetro – la descrizione dettagliata esigerebbe la conoscenza di una vasta nomenclatura in angloamericano.
La tuta è bianca e traslucida, istoriata da scritte e marchi, con un grande numero 121 – la data di nascita, il 12 gennaio –, stampato sulla schiena irrigidita dal carapace, l’esoscheletro a protezione della spina dorsale. Il collare Leattobrace brevettato salverà le vertebre cervicali; i poderosi gambali gremiti di ganci e lacci velcro attestano che il centauro non ha i piedi d’argilla. Si indovinano sotto la tuta le imbottiture biomeccaniche per le ginocchia e i gomiti. Una tasca contiene a stento gli enormi guanti. Appoggiata sul tettuccio del furgone, sta la sfera del casco gigantesco, da guerre stellari, foderato di tessuti dry–tex con trattamento igienizzante. Sporge in basso, come un becco minaccioso, il filtro respiratorio.
Ognuno degli enduristi affaccendati attorno è vestito rigorosamente allo stesso modo, cavalieri spaziali in fantasiose variazioni policrome. La maggioranza netta delle moto–insetti, alte sui trampoli delle lunghe forcelle e delle sospensioni, esibisce marche giapponesi, tanto da far dubitare su chi abbia vinto l’ultimo conflitto mondiale. Qualcuno prova il motore e tutto vibra di suoni laceranti. L’atmosfera è decisamente eroica. C’è nell’aria, satura di gas di scarico, l’attesa di un evento epico.
Padre e figlio si abbracciano come se non se non si fossero appena visti due giorni prima.
Raggiungono assieme lo sbarramento, oltre il quale si delinea sulla spiaggia il percorso labirintico della gara, difficile da individuare per un inesperto come il padre.
Ci hanno lavorato tre giorni i ragazzi della Polisportiva, spiega il figlio, a delimitare il circuito con quei nastri di plastica tesi fra i paletti conficcati nella sabbia. E a disseminare poi la pista di vecchi copertoni di trattori e camion e di tronchi buttati di traverso, una quantità di ostacoli che al padre sembrano insuperabili e pericolosi.
Non troppo pericolosi, rassicura il figlio, e quasi insuperabili forse per me, che non ho più il fiato dei vent’anni. Bastano i quaranta centimetri di uno di quei copertoni a togliermi il respiro e a bloccarmi. Ma lì sta il bello. Comunque non preoccuparti, qui non c’è un fettucciato, io andrò piano, altrimenti non ce la farei. Mi basta di arrivare entro il tempo massimo.
Il padre chiede cosa sia il ‘fettucciato’ e il figlio gli spiega che nel gergo dell’enduro è un circuito in terra battuta. Ma qui c’è solo sabbia e ghiaia, che è un problema in più, perché il terreno cede continuamente sotto le ruote. I concorrenti locali sono avvantaggiati, perché conoscono bene come si fa a restare in equilibrio.
Per i pochi spettatori e curiosi – è l’ora del pranzo domenicale, la gente sta a casa o al ristorante, specie in una giornata grigia di febbraio–, un altoparlante gracchia con entusiasmo l’annuncio della prima gara riservata alla categoria di cilindrata più piccola.
Poi lo speaker ufficiale dell’organizzazione si trasforma economicamente in starter e corre sulla linea di partenza con la bandiera a scacchi in mano per dare il via ai piloti schierati in sella, tutti giovanissimi.
Càspita, come si avventano, come vanno subito veloci. Alla prima curva si ammucchiano spalla a spalla, gomito a gomito, manubrio contro manubrio verso il lato più stretto, contendendosi lo spazio, aggressivi e noncuranti del rischio di un macello di cadute e travolgimenti collettivi. Ma nessuno cade, i motori ringhiano e riprendono piena velocità spruzzando sabbia e ghiaia. In testa c’è un magrolino che fila sicuro prendendo distanza dagli altri e superando senza il minimo sforzo gli ostacoli come non ci fossero.
Guarda che bravo quello in testa – indica il figlio –, quello va già ai campionati del mondo, è uno che ha classe. Il padre guarda e non dice niente, è rintronato dal rumore, turbato, spaventato da uno spettacolo di violenza e temerarietà che non ha altro scopo, gli pare, che la sublimazione degli istinti.
Ma non c’è dubbio, quello in testa è proprio bravo. Basta seguirlo per pochi minuti della corsa e si finisce presto per immedesimarsi nelle sue perfette evoluzioni senza incertezze, nella elegante sicurezza che lo porta a concludere trionfalmente la gara con un bel distacco. Lo speaker all’altoparlante ne tuona il nome come un urrah, suscitando qualche applauso. È il campione che tutti vorrebbero essere, anche un vecchio lo vorrebbe.
Le altre gare che seguono sembrano al padre tutte uguali: aggressività, frastuono, puzza di scappamento, i migliori che dominano le corse, gli ultimi che arrancano, qualcuno che cade sulla sabbia, rimonta faticosamente, riavvia con un calcio frenetico al pedale dell’accensione e riparte derapando.
Finalmente tocca al figlio, nella categoria della cilindrata più potente.
Il padre s’è piazzato ad una curva preceduta da un complicato ostacolo di copertoni e di tronchi. Vuole scattare qualche fotografia memorabile del suo centauro. Lo cerca nel mucchio, ancora lontano, che si defila lungo il tracciato tortuoso, ma non riesce a distinguerlo, anche perché guarda tra i primi. Poi lo riconosce dal grande numero 121 sulle spalle. È uno degli ultimi, e avanza a casco basso, teso nello sforzo. Ora non lo perde più di vista e un minuto dopo è lì, davanti all’ostacolo. Ma va piano rispetto agli altri già passati rombando e già lontani, troppo piano perché la moto possa inerpicarsi di spinta sui copertoni e scavalcare i tronchi. Il motore si ferma, il figlio smonta con difficoltà, punta i gambali nella sabbia cedevole per trattenere la moto che si piega pesante, non ce la fa, deve accorrere un assistente di gara ad aiutarlo, a sorreggerlo mentre si rimette in sella, a sospingerlo. Al prossimo tronco, cade lentamente prima di superarlo. Si siede sulla sabbia. Gli altri concorrenti hanno ormai raggiunto il traguardo.
Poco dopo, tra gli enduristi che lasciano la spiaggia, rieccolo. Sta spingendo il grande insetto meccanico verso l’area Paddock. Si toglie il casco.
Squalificato, dice.
È pallido di fatica ma non sembra deluso, come per un esito scontato. Mentre carica la moto sul furgone, visto di spalle, ricorda al padre la tenera goffaggine del bambino mascherato da capo indiano, al concorso per il costume più bello, in una lontana festa di carnevale.