Storie

Storie Brevi – La memoria
Fotografie perdute

Devo darti una notizia che ti dispiacerà, gli annuncia al telefono la suocera, la cantina della tua povera mamma si è allagata e abbiamo dovuto buttare via tutto.

Come tutto? balbetta Emilio quasi gridando, e non riesce a dire altro.

Mentre ascolta cos’è successo – pioggia caduta giorni e giorni, fognature scoppiate, casse e carte giù nel liquame fetido – gli tornano in mente a fiotti le cose, libri, lettere, fotografie e tutto il resto. E si sente invadere da una vertigine di sofferenza senza rimedio.

Possibile che non si sia salvato niente? Almeno le fotografie, la loro carta è fatta per resistere all’acqua. C’è un tono di rimprovero nelle sue parole, come se dicesse: fossi stato presente non sarebbe andata così.

Rasségnati, risponde la suocera. Niente poteva essere salvato. Il fango ha ridotto tutto in poltiglia. E sottintende: se tenevi tanto a quella roba, perché non sei venuto prima a portartela via? E’ passato un anno. Peggio per te.

Sì, peggio per lui. Posando il telefono Emilio sente già il dolore farsi rabbia, sordo rancore contro se stesso, e prendergli in pugno lo stomaco.

Maledetto lavoro. Emilio attribuisce al lavoro, che lo impegna lontano dalla sua città natale, un ritardo che è soltanto colpa sua, del suo modo di fare, anzi di non fare. Di rimandare ogni decisione che prospetti una scelta.

Emilio non è di quelli che si disfanno senza patemi delle cose del passato, e si sentono anzi liberati, hanno risolto un problema di spazio nelle loro case e nelle loro teste. Nella cantina della mamma morta ogni carta, ogni immagine avrebbe imposto una scelta angosciosa per lui, che tende a non buttar via mai niente, ad ammucchiare tutto alla rinfusa, in vista di un futuro, illusorio momento dell’ordine perfetto.

Con quelle carte, quei libri, quelle fotografie è andata perduta una parte irreparabilmente vasta e profonda del suo mondo. Tracce essenziali da seguire per ricongiungersi – avendo tempo – alle vite che lo hanno preceduto e alle quali deve la sua.

Avendo tempo. Nei giorni che seguono, le preoccupazioni del lavoro e del presente riempiono il vuoto apertosi alle spalle di Emilio. Ma la sera, prima di addormentarsi, la perdita torna a opprimerlo. Ritenta ogni sera un bilancio del disastro, e ogni nuova cosa che emerge alla memoria dalla fanghiglia è una fitta lancinante.

Addolora Emilio la scomparsa delle lettere. Quelle del padre soldato, calligrafia minuta ed elegante come il suo stile, con le quali aveva riempito di notizie minime e rassicuranti i lunghi anni vuoti di due guerre mondiali.

Poi le lettere della madre al fidanzato e più tardi marito al fronte. Scritte d’istinto in un italiano sciolto e arguto che il padre ammirava e invidiava. Lui gran purista, ma dopo minute e ricopiature gremite di pentimenti. E c’erano anche lettere di persone importanti, testimonianze di stima per il padre e di consuetudini d’amicizia. E altre missive, e documenti dai quali sarebbe stato possibile risalire ad affari di famiglia, a parentele remote, a eventi sconosciuti o dimenticati. Per ricostruire la storia delle proprie radici.

Carteggi che Emilio aveva già scorso distrattamente in passato. Se continuasse a disporne, non li rileggerebbe mai, è probabile, ma ne sente ora la mancanza proprio perché perduti.

Pazienza per i libri. Il padre, morendo anni prima aveva lasciato la biblioteca non a lui, figlio unico, ma al suo – allora – primo bambino. Un segno di sfiducia di cui aveva sofferto. La biblioteca era passata per il momento negli scaffali di Emilio, ed era dunque salva. La madre aveva trattenuto una piccola parte dei libri, un po’ per leggerli, un po’ per ragioni sentimentali, soprattutto vecchie traduzioni di romanzi regalategli dal marito. Perdita limitata, dunque.

Gli scatoloni e gli album delle fotografie sono, invece, la vera perdita, irreparabile. Pieni di immagini di persone quasi tutte morte. E morte un’altra volta nella cantina allagata, per colpa della sua ignavia. Anelli svaniti dalla catena della memoria.

La mamma, nei suoi ultimi anni, aveva riordinato le fotografie più care, distribuendole secondo una sua priorità di affetti in album, che Emilio sfogliava attento durante le sue rare visite. Altre foto, giudicate meno importanti, erano state ordinate in buste sulle quali la madre aveva scritto qualcosa con la sua calligrafia alta e esatta.

Nei giorni del funerale, Emilio aveva frugato un po’ in quelle buste, sospirando di commozione quando vi riconosceva persone luoghi circostanze. Erano immagini guardate a lungo da ragazzo una per una, e raccontavano molte storie, ma egli ne ricordava solo alcune, colte nei discorsi dei suoi.

Su una busta era scritto “Postelegrafonici” – il nonno paterno era stato impiegato alle Poste – e conteneva una serie di fotografie del primo Novecento, incollate su cartoncino. Il nonno era in posa pensosa con altre persone, sedute attorno a un tavolo di marmo in un giardino. Che fosse una riunione di colleghi di lavoro per qualche speciale circostanza, si capiva da un grande cartello appoggiato a una sedia, con la scritta “Ufficio IV” stampata in bei caratteri. Avevano tutti abiti stirati con cura e cravatte ben annodate attorno ai solini inamidati. Le scarpe erano lucidissime, i capelli e i baffi tagliati di fresco. In alcune foto, scattate evidentemente dopo un pranzo, si erano tolte le giacche ed esibivano le bretelle e i gemelli ai polsini. Le pancette tendevano i calzoni alti di cintura. Le uniche immagini del nonno non ancora vecchio.

Emilio si ricorda ora anche di un’altra foto perduta delle Poste, ripresa forse qualche anno dopo, così grande da non stare nella busta e legata ad essa da uno spago. E sente un nuovo nodo di dolore. Si vedeva la facciata del vecchio palazzo delle Poste, poi demolito e sostituito da uno nuovo, e la piazza antistante occupata da una moltitudine di persone con gli occhi intenti all’obiettivo. Erano tutti i “postelegrafonici”, stretti caparbiamente per entrare nell’inquadratura, dal direttore all’ultimo fattorino.

Nella folla, il volto di una giovane donna bellissima aveva trafitto Emilio. Era nel centro esatto della scena, come per il tacito accordo di tutti che lì doveva stare la Regina delle Poste. Sembrava le avessero lasciato attorno un piccolo spazio di reverenza, dal quale si irradiava la sua bellezza solitaria e consapevole. Il volto era appena piegato, in un atteggiamento di eleganza botticelliana. Eleganza naturale, non certo per abiti costosi. Indossava infatti un grembiule o tenuta da lavoro. Emilio soffre soprattutto la perdita di quella giovane donna. Poterne scrutare ancora i bei tratti con una lente. Osservare le espressioni di chi le stava vicino sentendosi privilegiato.

Lo aveva colpito per contrasto nella foto un’altra donna, che pareva scontenta di esserci, seminascosta nella calca dei maschi, il viso solcato da profonde rughe. L’avrebbe riconosciuta anni dopo in una vecchia curva per l’età e forse anche per questo incredibilmente piccola.

Cronista principiante nel dopoguerra, Emilio era stato incaricato di raccogliere il sunto del discorso di un importante deputato comunista, tornato in città in tempo di elezioni. Aveva suonato a una casa modesta e una voce aveva gridato nelle scale: secondo piano. La porta era aperta e in una stanzetta sedeva a un tavolino il deputato, con gli occhiali e i capelli brizzolati. Aveva alzato la bella testa da intellettuale – era un professore universitario – e, indicando una sedia, gli aveva detto: ho subito finito. Stava scrivendo per Emilio, cattiva abitudine di allora, il sunto del suo discorso.

Accanto, su un letto di fortuna, una donna molto graziosa, moglie o compagna più giovane di lui, all’ingresso di Emilio si era sollevata, tirandosi la gonna sulle calze e ravviandosi i capelli con un gesto di semplice civetteria.

Dagli atteggiamenti, più che dagli abiti sobri, si capiva che entrambi venivano da una grande città, dalla Capitale, dove la promiscuità col potere dà a tutti – anche a chi non ha potere –, un’aria sicura e distesa di mondana superiorità.

Il deputato non aveva più potere ma l’aveva avuto. Nel governo di coalizione che si era formato al Sud nell’ultima guerra, dopo l’armistizio e la fuga del re, gli era stato affidato un incarico di prestigio, e si sentiva che credeva ancora di contare qualcosa, nonostante i comunisti fossero stati messi da parte.

Vuole un caffè? E il deputato aveva chiesto a qualcuno invisibile nell’attigua cucina: per favore puoi farne tre? Sono già pronti, aveva risposto una voce tenue e velata. Ed era comparsa la faccia rugosa, che nella fotografia davanti al palazzo delle Poste sembrava scontenta. Una vecchietta curvissima e pacificata avanzava pian piano portando su un vassoio tre tazzine. La giovane era scesa subito dal letto scalza e era andata premurosa verso di lei per aiutarla, ma l’altra aveva scostato un poco il vassoio, dicendo in dialetto con un piccolo sorriso: ce la faccio, ce la faccio.

Dunque era una parente del deputato, forse la madre. D’un lampo Emilio aveva ricollegato il suo viso ad un altro ricordo: di un uomo che anni prima aveva visto piangere nella cucina di casa sua.

Raccontava del figlio detenuto politico per una lunga condanna, molto malato in un carcere lontano. Non vuole firmare la domanda di grazia, non vuole chiedere niente a quello là, diceva scuotendo il capo. Quello là era il dittatore. Piangeva sommesso asciugandosi gli occhi col fazzoletto.

Il giovane professore, aveva poi spiegato il padre a Emilio, era espatriato in Francia confondendosi in una comitiva di tifosi al seguito della nazionale di calcio. Ma dopo un anno aveva avuto l’ingenuità di rientrare in Italia e l’avevano subito arrestato.

Finito di scrivere, il deputato aveva porto a Emilio il sunto, dicendogli sorridendo: tanti saluti al papà.

Perse anche le foto della mamma giovane e della sua amica del cuore, sedute sopra un masso levigato lungo la riva del fiume. Che fossero inseparabili si intuiva dagli abiti quasi uguali, come di sorelle. Gonne alla caviglia e giacchini sfiancati, da cui fiorivano grandi colletti bianchi. E immensi cappelli da “signore”, che avrebbero dovuto incorniciare i profili, gli sguardi rivolti a un punto lontano. Ma il fotografo si era preoccupato soprattutto del contrasto tra i cappelloni scuri e i collettoni bianchi. Non aveva pensato di far risaltare i bei volti freschi di ragazze, sommersi invece dentro quel bianco e nero. Si poteva giurare che il ritrattista avesse esclamato compiaciuto mentre scattava: sembrate un quadro!

La bruna mamma e la sua coetanea bionda. Una coppia di fanciulle in fiore lietamente assieme nel momento irripetibile della loro amicizia gioventù eleganza. Perse per sempre.

Una notte Emilio sogna che fotografie lettere documenti ci sono ancora. Qualcuno entra nella stanza portando la pila di album e buste, e rovescia tutto sul tavolo dicendo, come alla fine di uno scherzo: hai visto che niente è andato perduto? E a lui si apre il cuore e, come ogni volta che ritrova qualcosa che credeva smarrito o rubato, gli sembra che tutti i suoi problemi si siano risolti nella gioia.

Ora sarà possibile ricomporre con calma tante storie aneddoti genealogie. Assicurarsi un passato anche per i posteri. Ora occorre un piano serio di lavoro per ordinare un archivio completo e sistematico, suddiviso per argomenti ed anni, in raccoglitori da lasciare ai figli. Una cosa ben fatta. Badando a ricostruire, con il sussidio delle immagini, tutte le vite della famiglia nel disincanto della quotidianità.

Ma ecco che da un album scivola fuori una fotografia. E’ bagnata e si appiccica al piano del tavolo. Emilio, cercando di staccarla, la strappa e si sveglia con un grido.