Storie Brevi – Chissà
Fine di una festa
Sera perfetta per stare alla finestra, dopo aver tacitamente applaudito la rappresentazione d’un impeccabile tramonto estivo, con poche lunghe nuvole stese all’orizzonte tra il sole e il mare, senza vento e senza rumori.
Sto così, appoggiato a un davanzale della mia piccola casa, in alto sulla collina, ad assaporarmi il buio che scende e le stelle che s’accendono secondo l’immutabile copione celeste, pensando che a questo punto ci vorrebbe una sigaretta, se il mio debole cuore me lo consentisse.
All’improvviso appare, nel parco scuro che si stende sotto di me, un chiarore diffuso. Proviene dalla grande villa disabitata e silenziosa dei miei padroni di casa, da anni trasferiti in città e usi ormai a villeggiare altrove. Gli unici rari segni di vita che sinora mi era capitato di percepire, filtrati dai folti alberi di laggiù, erano le voci di invisibili giardinieri e artigiani, intenti a qualche sommario lavoro di manutenzione e di ripristino.
Nel pomeriggio avevo intravisto, tra il fogliame fitto, biancheggiare qualcosa d’insolito sopra lo spazio che so occupato da una terrazza. M’era sembrato che vi avessero sovrapposto dei grandi teli di forma irregolare. Non ne avevo compreso il significato e lo scopo, ma ora che la luce elettrica disegna la scena, capisco che hanno usato le vele triangolari di qualche barca in disarmo, tese fra l’edificio e gli alberi, a formare una sorta di padiglione. E’ chiaro: si sta preparando una festa e ci si è premuniti contro l’umidità notturna e per offrire un riparo nel caso d’un improvviso quanto improbabile acquazzone.
Di lì a poco, a conferma della mia supposizione, e a distruggere l’incanto della sera che mi ero andato predisponendo, altoparlanti al massimo volume esplodono in una musicaccia rock, rap, rave, punk, hip hop o cos’altro. E’ una festa di giovani, dunque. E chi, se non un’orda noncurante di giovani, può dare una festa in quella vecchia villa abbandonata.
In pochi minuti il parco si riempie di voci alte, dissonanti, prevaricanti l’una sull’altra e sullo stesso clamore inascoltato di una “musica” di cui non afferro il motivo ma che per me ha un unico scopo: stordire il niente con un vacuo sottofondo sonoro. Vengono di laggiù esclamazioni risate battute che non comprendo ma di cui intuisco la pochezza, la sguaiata volgarità. Sono figli di ricchi che si divertono. Al modo di tutti i giovani d’oggi, poveri e ricchi.
Nel vano tentativo di separarmi da loro, chiudo tutte le finestre delle mie poche stanze nonostante il caldo. Mi sdraio sul letto, cerco di leggere un libro. Ma quel rumore persiste a giungermi attraverso i vetri che ne vibrano. Un susseguirsi implacabile di colpi contro i miei timpani e contro le mie convinzioni, ahimè sorpassate.
Inserisco nel lettore un dischetto lucente, mi infilo la cuffia, spengo la luce, mi placo nell’universo stereofonico della sinfonia numero quarantuno in do maggiore “Jupiter”.
Allegro vivace, andante cantabile, minuetto-allegretto, molto allegro… Mi lascio invadere dall’onda di grazia e d’armonia, sintesi di galanteria e di classicità, sapiente costruzione di contrappunti fino allo splendore del fugato finale.
Quando la musica si esaurisce, la miseria sonora, il frastuono informe di laggiù mi colpisce ancora con una fitta dolorosa e insopportabile. Suonassero almeno qualcosa di Zappa. Oppure di Eno, se non altro. Riaccendo la luce.
Un rumore leggero di sassolini lanciati contro i vetri finisce per richiamarmi alla realtà. Riapro la finestra e guardo nel buio. Dopo un po’ riesco a distinguere, sul prato che circonda la mia casa, il bianco di alcuni visi levati verso di me. Sono tre della festa, due ragazzi e una ragazza, saliti da una scaletta padronale. I maschi portano le solite magliette leggere, lei qualcosa che la scopre più che coprirla, ai miei tempi un’ardita sottoveste. Uno dei giovani, il più alto, dice con voce impastata e proterva: dài, vieni giù a romperti con noi. Nelle sue mani luccica un bicchiere.
Resto immobile a fissarli, senza dire una parola. Possono vedere di me controluce solo un profilo nero, forse non capiscono se sono giovane o vecchio, ma subito il dubbio mi è tolto: dai, ti farà bene un po’ di gioventù… La ragazza ride sfrontatamente appoggiandosi a quello che parla e tutti e due traballano facendo barcollare anche il terzo. Sono ubriachi.
Io continuo a guardarli tacendo. Stanno lì ritti, oscillando appena, come si aspettassero da me qualcosa. Non sanno cosa e nemmeno io lo so. Quello col bicchiere mormora altre poche parole che non capisco e la ragazza ride ancora con impudenza. Ma il mio silenzio perdurante li imbarazza più d’un rimprovero. Si volgono, raggiungono la scaletta reggendosi goffamente l’un l’altro, spariscono su un’ultima battuta incomprensibile e una nuova risata della fanciulla discinta.
Torno dentro, chiudo la luce, rimetto in moto il dischetto, stacco la spina della cuffia, spingo provocatoriamente il volume verso il massimo, esalto le note basse, premo il tasto del “ripetere” e mi ridistendo. Ed ecco, stavolta, l’avvio molto allegro della sinfonia numero quaranta in sol minore. Ma, così alta, non è più la mia musica. E’ un altro frastuono, che riempie la camera e travalica nel buio dalla finestra aperta, mescolandosi velenosamente al frastuono di laggiù, nel quale quei giovani tanto s’annoiano, a quanto pare. Dopo un po’, nonostante il rumore, o forse per il rumore, mi addormento.
Una voce che chiama mi risveglia. Mi levo al buio. Laggiù, la cattiva musica e i rumori sono cessati. Le luci sono spente. La festa è finita. Sento solo il mio Mozart, ma ora stranamente lontano, in sordina, come evocato. Sono leggero e agile. Da moltissimo tempo non mi sentivo più così. Nemmeno nei sogni. Mi affaccio alla finestra.
Tre volti galleggiano nell’oscurità e mi fissano seri. Il loro pallore è estremo. Sono (se lo sono), i tre ragazzi di prima. Eretti l’uno accanto all’altro sul prato. Immobili. Un brivido mi percorre e un oscuro panico mi invade guardandoli. Non occorre che io li distingua meglio per avvertire senza stupore che i loro occhi scorgono in me ciò che io vedo in loro. Sono percorsi dallo stesso brivido. Invasi dallo stesso panico.
La ragazza parla. E’ un sussurro lamentoso e opaco. Non sei venuto con noi. Non sei venuto. Si rivolge a me come a un padre distratto. Che non ha saputo ascoltare. Che non ha accolto una richiesta d’aiuto.
Se venivi giù con noi…, prosegue il giovane alto che mi aveva rivolto l’invito. Non ha più il bicchiere in mano. Non è più protervo ma trasognato. C’è una macchia scura sulla sua fronte. E altre macchie deturpano anche il volto dei suoi compagni.
Forse se c’eri tu, era meglio anche per te, dice il terzo che prima non aveva parlato. La sua voce è innocente e lontana. Come le altre voci.
Sì. Avrei dovuto venire giù con voi, dico senza emozione né dolore. Ciò che fino a poco fa era in me senso di estrema leggerezza s’è mutato in un vuoto irrevocabile. E un uguale nulla senza fine è nei tre giovani che ora se ne stanno andando.
Sono ancora sdraiato sul letto. Sveglio ma come se dormissi. Non penso a niente. Non so nemmeno se sia notte o giorno. Lontana ma dentro di me fluisce una musica infinita.
Il
campanello suona stonato. Mi cercano. Dovrei alzarmi e aprire ma non riesco a
muovermi. Suonano ancora con insistenza. Picchiano alla porta. Più forte. Con
il pugno. Risuonano voci preoccupate. Tutto è lontano eppure dentro di me.
Qualcuno ha aggirato la casa ed è sceso sul prato. Sento parlare davanti alla finestra aperta della mia camera da letto. Uno dice: la musica continua a suonare a tutto volume. Sempre la stessa. Avevamo appuntamento per il roseto da piantare. Adesso sono le nove, dev’essere in casa.
Chiamano il mio nome. Cercano una scala.
Il vano della finestra è oscurato dall’ombra di qualcuno salito dall’esterno. Penetra cauto nella stanza. Spegne la musica. Viene al letto mi chiama mi scuote. Va ad aprire la porta agli altri. Dice a voce bassa: è di là.
Entrano tutti in punta di piedi. Alti. Compunti attorno al mio letto. Come respirano come pulsano i loro cuori turbati. C’è anche il mio medico. Mi appoggia una mano sulla fronte mi prende il polso mi schiude un occhio. Dice: è andato ormai da qualche ora. I segni sono da infarto. Aveva il cuore in disordine da almeno tre anni. Non peggio di tanti altri però. Sempre solo. Sempre isolato.
Già, sempre solo, accenna un altro prendendo coraggio e stropicciando le suole contro il pavimento. Sospira. Bisbiglia un segno di croce.
Eh, riprende il medico, forse se avesse avuto qualcuno, voluto qualcuno. Anche quello può servire. Ma almeno è morto nel suo letto, vestito ma nel suo letto. Non come quei tre disgraziati con l’auto. Non vi potete immaginare com’erano ridotti. Dei ragazzi. Lei proprio bella. Che nottata.
Poi torna a guardare me: bisognerà avvertire la figlia. Vediamo se trovo il numero.
Fruga sul comodino tra i libri che sto leggendo, la matita per gli appunti, la mia agenda, la vecchia stilografica nera di mio padre.
Chiama al telefono. La voce tornata bambina di mia figlia risponde allarmata al dottore, che già dicendo pronto fa capire che non ha una bella notizia.
Si, signora, mi dispiace. Stanotte. Sì, probabile infarto. Sul letto ancora vestito. Trovato adesso, la musica ancora accesa.
Le parole si spezzano, pèrdono senso, suoni distorti. Il pianto che viene dal telefono è una nota alta, lo strazio d’un oboe.