Storie Brevi – Un bellissimo giallo
Scolpire
L’ho cavato tutto da un bel tronco di noce
per cercare le possibilità di quel legno.
Arturo Martini
Questa domenica il padre di Emilio va a trovare in bicicletta un amico artista. Si chiama Arturo.
Vuoi venire con me a veder lavorare uno scultore? Devi averlo conosciuto: è stato da noi qualche volta. Il ragazzo accetta volentieri. Gli piace guardare gli artisti all’opera, ma non gli capita spesso, nonostante in casa ne vengano quasi ogni giorno, pittori soprattutto.
Arrivano di solito la sera dopo cena, con le loro mogli o compagne. Indossano grisaglie un po’ fruste. Uno soltanto, che va ogni anno a Parigi, porta giacche sportive e cravatte molto colorate. Sono gli anni Trenta, un’epoca in cui non è pensabile presentarsi nelle case scamiciati, anche nell’estate più calda. Sembrano tutti impiegati che si ritrovano dopo il lavoro d’ufficio. Ma a qualche pittore, qualche volta, è rimasta sotto un’unghia una traccia di colore, di solito un verde o un blu.
Dipingono tutti nature morte e paesaggi, raramente figure, che è invece il tema ricorrente dei pochi scultori: testine, bustini, nudini nei quali si riconoscono le loro donne e i figli. Sono per lo più allegri e spiritosi, nessuno sembra turbato da tormenti creativi.
Di giorno lavorano nei loro studi o insegnano in una scuola d’arte. La sera parlano del più e del meno o giocano a scopone con suo padre, non artista ma in gioventù pittore dilettante e ora avvocato, che di tanto in tanto li assiste in qualche causa, ripagato con un quadretto o una piccola terracotta.
Giocano in tinello, sul tavolo ricoperto da un panno verde comperato apposta dalla mamma. Se fa caldo si tolgono la giacca e l’appendono alla loro sedia. Fumano molto quasi tutti e bevono vino rosso. Le donne intanto chiacchierano in cucina.
Il padre è un giocatore volonteroso ma spesso distratto, ogni tanto sbaglia una carta e il suo compagno si arrabbia. E’ la sola occasione in cui alzano la voce. Tranne una volta, quando avevano cominciato quasi per caso a parlare del loro lavoro e avevano finito per litigare.
Nonostante dipingano o scolpiscano tutti allo stesso modo (almeno così sembra a Emilio), quella volta sostenevano idee diverse, addirittura opposte, sull’arte, e il giovane stentava a seguire il filo della discussione. Citavano a sostegno delle loro tesi nomi anche stranieri per lo più sconosciuti al ragazzo. Pareva che solo quei grandi evocati sapessero come si fa a dipingere e a scolpire.
A un certo punto le voci erano diventate urla, e ai pugni battuti sul tavolo erano sobbalzate le carte da gioco, i bicchieri, i posacenere. Allarmate, erano corse dalla cucina le donne. Ma il padre aveva lasciato cadere una battuta spiritosa, che aveva fatto ridere tutti, anche i più accesi.
La volta del litigio c’era anche lo scultore Arturo, che sta in un’altra città e raramente capita alle serate in casa dell’avvocato. Irascibile e impulsivo, era stato anzi il primo ad alzare la voce, ma s’era anche lui alfine arreso all’ilarità generale. Aveva puntato l’indice ammonitore contro il padre: una buona battuta, caro il mio azzeccagarbugli, non è la soluzione dei nostri problemi, serve solo a rimandarla.
Questa domenica lo scultore Arturo è ospite nella villa di campagna di un amatore d’arte, a pochi chilometri dalla città dell’avvocato, mezz’ora di bicicletta in una bellissima giornata di sole.
La villa è su una collinetta, isolata tra filari di vigne, prati e giardini curatissimi. Posto da ricchi. Il padre suona al cancello e una donna, quasi una contadina, si affaccia alla porta in fondo al viale di cipressi e grida: i signori non ci sono.
Ma noi cerchiamo lo scultore, spiega il padre.
Il cancello si apre. Girate attorno alla casa, dice la donna. Sta lavorando nella scuderia.
Appoggiano le biciclette a un cipresso e seguono un vialetto di ghiaia che corre lungo la villa. Il padre si ferma davanti a una finestra e indica al figlio dei quadri che si intravedono all’interno, in un grande salotto a pianterreno.
Guarda, quelli sono De Chirico e Morandi. E laggiù c’è Savinio, il fratello di De Chirico. Parla a bassa voce, come se stesse spiando qualcosa di proibito. Emilio scruta oltre i vetri e vede due cavalli che caracollano lungo una spiaggia, uno bianco e uno rosso, con le code fluttuanti. Vede poi una bottiglia grigia e una scatola rosa e, laggiù, una strana anitra seduta in poltrona.
Sul retro, il vialetto si apre in un piazzale, dove la villa si allunga verso il panorama della pianura. L’avvocato spinge un portone socchiuso e s’affaccia dentro. Arturo è là, al centro di una sala nuda e luminosa, che arriva alle travi del tetto. Sta lavorando a un grosso tronco, e sacramenta da solo.
Possiamo entrare? La domanda suscita echi tra le pareti spoglie.
Ah, sei tu, avvocato, vieni, vieni, grida Arturo senza smettere di lavorare, che almeno mi sfogo con qualcuno. Guarda che scarogna, ho scelto un albero che mi ha tradito. Qualche figlio di buona donna si è divertito a farci il tirassegno, e me ne sono accorto solo adesso.
Guarda! Guarda! Guarda!
Con una punta di ferro addita qua e là i segni dei fori e ad ogni “guarda” la sua voce cresce di tono.
Dall’altro lato del tronco, appena abbozzata a fitti colpi di scalpello, si sta rivelando una grande figura d’uomo con un corto mantello, un cappello tondo in testa e un grosso bastone nella destra. L’artista sta togliendo la corteccia man mano che l’opera procede e soltanto ora, apprestandosi a lavorare la schiena, ha scoperto che sotto la scorza il legno è crivellato di proiettili, probabilmente di rivoltella.
Guarda! continua a gridare, mentre con la punta di ferro scalza una dopo l’altra le pallottole deformate e le butta imprecando in un barattolo. Ma oramai non posso tornare indietro! E Arturo ricomincia a sacramentare.
Chi è questo personaggio?, chiede il padre.
Dovrebbe essere San Giacomo, qui, per la cappelletta della villa, ma sarà San Groviera.
San Giacomo Maggiore, scommetto. L’apostolo più focoso, che si arrabbiava dieci volte al giorno. Come te, che sei un apostolo dell’arte.
Mi arrabbio quando mi fanno arrabbiare!, esclama Arturo, già rabbonito dalle ultime parole del padre. Ma tu, ti intendi anche di santi? Non l’avrei detto. Sì, è il Maggiore, il fratello di Giovanni, l’Evangelista. Sembra sia stato il primo apostolo martirizzato, a Gerusalemme. Zac! e via la testa. Ma c’è una leggenda che invece lo fa viaggiare dappertutto, pare che abbia cristianizzato addirittura la Spagna, vallo a sapere. E così io lo faccio pellegrino.
Difatti le sue reliquie sono a Santiago de Compostela.
Bravo avvocato, ma tu non sei ateo? Non sei un mangiapreti?
Non sono osservante.
Ah, già, mi dimenticavo quanto sei diplomatico. Tu sei un gesuita mancato. Scommetto che vai d’accordo anche con i preti.
Non sono comunque un mangiasanti.
Arturo fa un mezzo sorriso.
Bravo avvocato, mi stai facendo passare la rabbia. E tu, piàvolo, come ti pare questo santo?
Il ragazzo, colto di sorpresa, non sa cosa dire.
Vedrai che verrà un santo straordinario, dice il padre girando attorno alla statua che sta prendendo forma. Guardala bene, Emilio, stai assistendo alla nascita di un capolavoro.
Eh, capolavoro capolavoro. Per adesso è solo lavoro. E ci devo sudare ancora tanto, non solo a tappare questi maledetti buchi, che non ho potuto (risatina nervosa) nascondere sotto il mantello. Devo trovare soprattutto le ombre (ora Arturo parla forte), le ombre! Le ombre che servono a fermare la luce nella maniera giusta.
Emilio guarda la statua. Per essere un apostolo, gli sembra giovane. Tutti gli apostoli che ha visto sinora nelle chiese, nei quadri e nelle statue, hanno l’aspetto di vecchi, con lunghe barbe bianche. Questo ha invece la faccia di un giovanotto che non si è rasato da qualche giorno. Anche il cappello non è proprio largo e piatto da pellegrino, come portano certi santi. Sembra piuttosto quello di un bambino al mare. Dà a questo Giacomo un’aria sbarazzina.
Emilio nota anche che il braccio sinistro non si vede. Sembra anzi che non ci sia abbastanza legno nel tronco per farlo uscire.
Papà, sussurra, perché fa un apostolo così giovane? Non osa chiedere del braccio.
Bravo che te ne sei accorto, dice lo scultore, che sembrava intento a scalzare le pallottole, e invece ha sentito. Lo faccio giovane perché gli apostoli erano giovani, e la gioventù porta la speranza, che i vecchi non hanno più. Ma non sono l’unico che se li immagina così. A Ravenna, per esempio, ci sono un sacco di apostoli e di santi giovani.
Si rivolge al ragazzo: hai visto i mosaici? No? Avvocato, non so cosa aspetti a portarlo a Ravenna. Altre domande?
Emilio, incoraggiato da un cenno del padre, timidamente addita in alto, al punto del tronco in cui ci dovrebbe essere la spalla sinistra.
Il braccio sinistro…
Il braccio sinistro non c’è, dice bruscamente Arturo.
Padre e figlio osservano in silenzio lo scultore che lavora.
Dopo un po’, l’avvocato dice: questo santo pellegrino ha camminato molto dal Quattrocento.
E qui ti volevo!, esclama Arturo subito infiammato, con la tua aria da gesuita mi domandi e non mi domandi. No, caro, non sto facendo una cariatide, un santo gotico tutto d’un pezzo. La scultura è un’arte ferma al passato, qualcuno ha tentato di rifare il gotico, che è uno stile esaurito. Esaurito! Ma tu dovresti saperlo che io cerco di venirne fuori, di fare qualcosa di nuovo.
Come farai?
Qualcosa ho già fatto e ancora farò! Farò! Farò! Ora Arturo parla piano, quasi tra sé. Caverò questo Giacomo da questo tronco, lo libererò, lo liscierò, tirerò fuori tutte le possibilità che mi dà questo noce pieno di buchi. Lo vedrai quando avrò finito. E adesso andatevene e lasciatemi lavorare.
Buon lavoro, dice il padre sospingendo Emilio verso l’uscita.
Arturo non risponde. Sta picchiando cauto nel tronco con un martello di legno e uno scalpello dalla lama affilata, che luccica quando ci batte il sole dalle finestre.
Il luogo in cui l’Emilio del racconto vide lo scultore Arturo Martini all’opera, nel 1939, è la tenuta di San Giacomo al Vago, vicino al paese di Vago Veronese, a pochi chilometri dal capoluogo, sulla statale che porta a Venezia.
La tenuta ‒ un bellissimo parco con al centro l’ottocentesca Villa Milani e, incorporata, la chiesa di S. Giacomo ‒, apparteneva allora ai fratelli Bartolo e Ignazio Battiato, ricchi collezionisti e benefattori. Essi donarono dapprima la statua alla chiesa e, nel 1951, cedettero l’intera tenuta all’Istituto religioso Don Calabria di Verona.
La grande scultura San Giacomo Maggiore, in legno di noce, è oggi nei Musei Vaticani. Si distinguono ancora nella schiena del Santo, accuratamente richiusi dallo scultore, i fori dei proiettili.