Storie

Altre Storie – Su niente, gratis
Visitatore immaginario

Nel vagone della metropolitana c’è chi sfoglia il giornale (spesso sportivo) o la rivista o il giornaletto gratis-guarda-e-getta o il quaderno su cui ripassa gli appunti dell’ultima lezione; c’è chi chiacchiera o discute, il più delle volte ad alta voce, in una lingua sconosciuta, con qualcuno salito con lui; c’è chi, appena entrato, apre alla pagina segnata il libro che s’è portato da casa o dall’ufficio, e s’immerge istantaneamente nella lettura delle poche righe che lo separano dalla sua fermata, come se nient’altro esistesse al mondo (e sono spesso le donne); c’è chi tira fuori il cellulare che estende all’infinito la sua capacità sociale di comunicare, e preme qua e là per vedere se gli sono arrivati messaggini o chiamate, oppure risponde a chi l’ha cercato e parla e parla, così come parlano e parlano, non al telefonino ma all’aria come i matti, quelli che il cellulare lo tengono nascosto da qualche parte, ma collegato all’orecchio vigile da un filo quasi invisibile.

C’è poi chi guarda nel vuoto, e lo fa in almeno tre modi. O ascolta attonito la musica dagli auricolari collegati da altri fili sottilissimi alla scatoletta lucida, piena di pulsanti e display, infilata in tasca o stretta in una mano, mentre con l’altra batte appena percettibilmente il tempo su un ginocchio, unico suo segno di vita; o sta in piedi, aggrappato con la destra all’apposito sostegno e reggendo con la sinistra una borsa, che ogni tanto solleva perché solidale col polso a cui è allacciato l’orologio che gli dice quanto manca all’importante appuntamento. Questi tipi sono sempre in corretta divisa borghese, giacca, cravatta, sciarpa e cappotto o impermeabile a seconda della stagione, persone perbene che stanno dappertutto sono sempre uguali – come diceva Steinberg genio sociologico con la matita – e guardano nel vuoto intenzionalmente per dichiarare la loro alterità rispetto alla gentaglia che li circonda nel viaggio. Della stessa specie sono certi impiegati o dirigenti pensionati, abbigliati ancora di tutto punto come se stessero andando a rapporto dal Direttore, o finti gentiluomini di campagna che hanno fatto un salto in città. C’è, infine, chi sta lì immobile a pensare, semplicemente, ai casi suoi. Tante maniere di occupare i minuti vuoti del percorso.

Io ho un altro sistema per ingannare il tempo in tram, in bus, ma specialmente in metropolitana: osservo le persone che viaggiano con me e cerco di immaginare come le vedrebbe e cosa penserebbe al mio posto uno che fosse stato catapultato in quel momento nel vagone dal passato o dal trapassato. Non un alieno, per il quale tutto sarebbe incomprensibile, ma uno che avesse avuto conoscenza del nostro mondo in un altro tempo e confrontasse le proprie esperienze con le novità che gli appaiono e se ne stupisse, si meravigliasse o si scandalizzasse.

Questo non è, per la verità, o non lo è nel suo insieme, un espediente per sottrarmi alla noia del tragitto. Forse lo è stato la prima volta che mi è capitato di pensarci. Ma subito è diventato il mio modo speciale di guardare, da fuori, la gente che viaggia con me. E oramai scatta, come riflesso automatico, quando sono su un mezzo di trasporto pubblico, soprattutto in metropolitana.

Ma da quale passato guardare il presente? Mi sono presto reso conto che questa era la domanda – la premessa – fondamentale. Scegliere l’ottica dei Primitivi, dei “Selvaggi”, o quella dei Greci, dei Romani o di qualche altro popolo dell’antichità? Oppure dei Barbari invasori, o dell’uomo del Rinascimento, oppure del Settecento illuminato? Il positivista o il conservatore dell’Ottocento? Ho cercato di immaginare, per ciascuno di questi osservatori, le possibili reazioni al cospetto del nostro presente.

Quale grado di stupore, innanzitutto. Perché è questo, principalmente, che io vorrei compiacermi di vedersi disegnare, al più altro grado possibile, sul volto del visitatore immaginario, messo di fronte a tante meraviglie della modernità.

Andare troppo indietro nel passato, però, finirebbe per deludere le mie aspettative. Una persona primitiva o troppo antica, ma anche del Medioevo, non si stupirebbe, non “trasecolerebbe” (parola giusta per evocare il salto di tempo), ma prenderebbe tutto ciò che vedrebbe, il blocco della sua nuova, portentosa esperienza, per una normale manifestazione di quel Divino, o del suo opposto, il Demonio, che pervadeva e guidava tutta la sua esistenza quotidiana. Vi troverebbe solo ulteriori conferme ad incrollabili credenze. Guarderebbe a noi moderni in viaggio con lui nel metrò come a messaggeri del soprannaturale, Angeli o Diavoli. Negherebbe le evidenze.

Del resto, non lo fanno ancora oggi i creazionisti, che persistono a giurare sulla verità dei tempi e degli eventi biblici, senza cercare accomodamenti simbolici e compromessi, che turberebbero le loro coscienze?

Se, guardando il cielo dal finestrino del veicolo, nei tratti scoperti, il mio visitatore immaginario troppo antico scorgesse un aereo che sfreccia alto brillando nel sole, vedrebbe soltanto un’apparizione angelica (lo aveva già intuito Jung). E le puzze delle nostre città, che noi non sentiamo più (come lui non avvertiva più quelle del suo tempo), non sarebbero esalazioni di carburanti bruciati o di sostanze chimiche, ma tracce mefitiche lasciate nel suo passaggio dal Maligno, da esorcizzare urgentemente, senza tanto pensarci su.

Non ci sarebbe gusto, insomma, a far salire in metropolitana qualcuno di quei nostri predecessori troppo antiquati, per mostrargli la realtà di oggi, fossero pure Aristotele, Sant’Agostino o San Tommaso (che finirebbero, tra l’altro, per mettere in difficoltà un interlocutore come me, impreparato alle domande troppo acute e pertinenti, che simili giganti del pensiero non mancherebbero certamente di rivolgermi: una vera occasione mancata, per loro).

La cosa funzionerebbe meglio, forse, con un visitatore dell’età dei Medici, uno smaliziato banchiere fiorentino. O un mercante della serenissima repubblica di Venezia o di quella superbissima di Genova. Ai quali, però, superato un primo, comprensibile e momentaneo sbigottimento (troppo breve rispetto alle mie attese), basterebbe un colpo d’occhio per afferrare le vantaggiose opportunità di investire i loro capitali nella nuova situazione. E subito dopo per calcolare la moltiplicazione dei guadagni resa evidentemente possibile dai moderni mezzi, dalla drastica riduzione dei tempi di trasporto e dall’aumento dei potenziali clienti e della loro capacità d’acquisto.

Leonardo nel metrò? Niente stupori, in lui, ma solo conferme clamorose delle proprie intuizioni e prefigurazioni. “Avevo ordunque ragione!” esclamerebbe il genio, e chiederebbe di scendere subito dal veicolo, esigendo di essere informato al più presto e in dettaglio di tutte le novità. Applicandosi anzi a buttar giù senza indugi progetti di modifiche e di migliorie, ad escogitare nuove invenzioni, suggeritegli da quello che vede in giro (ne hanno dato un esempio divertente e paradossale Benigni e Troisi, retrocessi al ‘400 nel film Non ci resta che piangere). Imparato in un battibaleno a usare il computer, il da Vinci vi comporrebbe in pochi giorni un nuovo Codice Atlantico, gremito di meravigliosi schizzi clip art. E scritto all’incontrario, grazie a un software da lui ideato lì per lì. Si troverebbe finalmente a casa sua. Sarebbe lui a stupire me.

Prendiamo allora un visitatore piombato qui dal Settecento dei lumi. Ma non un filosofo o un enciclopedista, che la saprebbero troppo lunga, e nemmeno un popolano sanculotto senza storia alle spalle, che resterebbe sì a bocca aperta, ma si riprenderebbe subito e si distrarrebbe a toccare il sedere e le tette alle ragazze con i jeans stracciati, prendendole per cittadine della sua specie.

No, meglio scegliere un mediocre borghesuccio del secolo dei lumi, un po’ bigotto, pieno di timori e pregiudizi, con vedute corte, poca fantasia e poca curiosità. Uno che avesse orecchiato con orrore i rumori nuovi del suo tempo, qualche idea fisiocratica, qualche massima di Montesquieu sulle leggi e sulla libertà o qualche tirata sull’educazione naturale di Rousseau, filtrate attraverso le prediche e i vaderetro dei parroci dal pulpito, le invettive e i libelli dei difensori dell’ancien régime. Uno che non volesse scendere dal mezzo pubblico per rendersi conto del resto, ma si limitasse a stupirsi viaggiando. Questo sì sarebbe un tipo che si colmerebbe di stupori e di trasecolamenti, e mi darebbe qualche soddisfazione.

Ma poi, a pensarci meglio, e anche aggiungendovi tutti gli aggiustamenti e le limitazioni che posso porre al gioco (perché in fondo è proprio un gioco), nemmeno un viaggiatore del Settecento andrebbe bene. Egli capirebbe certamente che la “diligenza” o che altro diavolo sia il veicolo che lo sta trasportando ad un’incredibile (per lui) velocità, è parte di un servizio pubblico. Qualcosa di cui egli è già al corrente, già funzionante in Francia fin dalla seconda metà dei Seicento, su suggerimento di un curioso tipo, quel Biagio Pascal. E avrebbe anche capito che il veicolo stesso è una sorta di tram, come quello introdotto in Inghilterra da John Outram nel 1775, e come quello su rotaie ma, evidentemente, non trainato da cavalli. Troppo poco stupore anche stavolta, dunque.

Non andrebbe meglio con un visitatore del diciannovesimo secolo. Costui saprebbe (a meno che non sia un pastore delle Barbagie o di altri sprofondi), che treni trascinati da locomotive a vapore hanno cominciato a trasportare persone e cose fin dal 1804, sempre in Inghilterra. Se è nato dopo il 1863 sa anche che a Londra (ancora questa Inghilterra!) funziona addirittura da quell’anno una metropolitana a vapore.

Ma il vagone in cui si trova il nostro viaggiatore d’un altro tempo non sembra invaso né da vapore né da fumo di caldaie o pulviscolo di carbone. Egli non capisce quindi quale forza propulsiva muova il mezzo. Per saperlo, deve essere stato partorito dopo il 1879, l’anno in cui Werner von Siemens presentò a Berlino il primo treno elettrico. La forza misteriosa dell’elettricità! Intuibile peraltro nelle sue possibili applicazioni anche dai soliti bene informati venuti al mondo qualche decennio prima. E aggiornati sui giochetti con le rane di Galvani e con i dischetti appilati di Volta. Il giovane Ippolito, che indubbiamente sapeva guardare lontano, fa confessare al suo Ottuagenario friulano (nel 1858), che “la vaporiera oggimai sembra troppo lenta: l’elettrico un giorno parrà più pigro e noioso d’un cavallo di vettura”.

E a questo punto ho capito di aver preso avvio con il piede sbagliato. Non servono i progressi tecnico-scientifici, per quanto mirabili, a suscitare più intensi e per me soddisfacenti stupori in un visitatore d’altre epoche, trascinato qui dalla mia immaginazione. Perché egli possa farsi un’idea fortemente stuporosa del nuovo mondo in cui è capitato, basta che osservi quel che succede a bordo, mentre la metropolitana va di fermata in fermata, caricando e scaricando – da porte che si aprono e si chiudono seccamente da sole, soffiando d’impazienza – la strana fauna di utenti del servizio.

Basta il comportamento della gente che viaggia con lui, come le persone si atteggiano, vestono, stanno assieme, comunicano, interagiscono. Come sono truccate le donne. A proposito. Non mi è nemmeno passato per la mente di stabilire se il mio visitatore immaginario debba essere uomo o donna. Lacuna (grave), alla quale rimedio subito: dev’essere un uomo. Non per pregiudizi maschilistici, ma per il semplice fatto che io non riesco a immaginare come possa reagire una donna nella situazione in cui la starei per porre. Non conosco il modo di pensare di una donna, di oggi o di ieri. Suppongo sia un modo di pensare diverso (e magari migliore). Dico suppongo, perché non ho mai capito niente delle donne.

Si stupirà, il nostro visitatore maschio, dei calzoni unisesso di rozza e stinta tela blu, indossati da quasi tutti? Stropicciati e macchiati quelli dei maschi giovani o vecchi, attillatissimi quelli delle donne, a disegnare spudoratamente nei dettagli le forme. O noterà, perplesso, che le uniche gonne che vede (accorciate sino a mostrare – udite udite – attraverso calze trasparenti, non solo le caviglie ma anche un po’ dei polpacci), sono portate solo da vecchie signore oppure da rare donne anche giovani, bruttine e senza belletto, che sembrerebbero specie di suore (e lo sono), i capelli celati da un copricapo dotato di velo o foulard ricadente sulle spalle, vestite austeramente di scuro, ma solo fino a due dita al di sotto delle ginocchia.

Gonne cortissime, sin quasi a mostrare le mutande, portano invece certe stanghe alte un metro e ottanta, di solito biondissime, truccate pochissimo ma in modo accurato, attente più delle presunte suore a non guardare nessuno dei compagni di viaggio, che se le divorano con gli occhi. Sicuramente modelle di fotografi di moda.

L’ostentazione delle gambe femminili non è, dunque, più un tabù, noterebbe il visitatore. Come non lo è, tranne che per le poche velate, la testa scoperta. Anche per gli uomini il tradizionale cappello a tesa è scomparso, solo i vecchi hanno la coppola mentre altri, specialmente giovani, esibiscono berretti variopinti con lunghe visiere, magari portati all’incontrario o di traverso, e decorati con sigle, disegni, scritte.

Le perplessità del nostro viaggiatore del passato aumenteranno se vedrà entrare nel vagone un gruppo di donne che sembrano davvero suore d’una volta, coperte come sono dal collo ai piedi di lunghe tuniche in colori smorti, sotto cui è nascosta ogni forma del corpo. E come le suore d’una volta le loro teste sono avvolte da un vero e proprio soggolo, che cela completamente la fronte, le tempie, la capigliatura. I loro volti sembrano senza colore, eppure se si osserva bene si capisce che sono truccati in modo da non parere truccati, ma anonimi e smorti come gli abiti. Le sopracciglia, tuttavia, sono minuziosamente depilate e il bagliore degli occhi nerissimi è esaltato da una quasi impercettibile linea nera. Sotto l’orlo svolazzante delle tuniche si scorgono eleganti scarpe col tacco. Queste ‘suore’ spingono avanti marmocchi vestiti con abitini griffati come tutti gli altri bambini, che le chiamano mamma e fanno liberi capricci come tutti i bambini. E le mamme li ammoniscono in una lingua molto aspirata e con parole molto accentate sull’ultima vocale, lingua che sembra corrispondere alla vaga idea che noi abbiamo dell’arabo o del turco.

Ma ecco salire altri uomini e donne vestiti in modo casuale-standard, però con tratti somatici decisamente non italiani o italioti. Conversano tra loro in parlate afro-gutturali o orientali, oppure in inglese, francese, spagnolo, portoghese, una piccola babele di cui solo il viaggiatore immaginario pare stupirsi.

Se costui è piombato qui d’inverno, vede raramente cappotti (e s’è già detto chi li indossa). Sono sostituiti da gonfi giubboni apparentemente uguali per i due sessi, con molte tasche, fibbie, strane chiusure, spesso dotati di cappucci con pelliccia, adatti a scalate in montagna o spedizioni polari. Le stoffe sono compatte, talvolta marezzate o con riflessi lucidi, con molti colori fantasia, vistose cuciture e rinforzi ai gomiti, alle spalle e in altri posti, non si capisce bene per quali funzioni.

Tutto è esageratamente esibito. Non c’è giubbone che non abbia cuciti o stampati in evidenza una o più insegne di specie quasi araldica. Come se chi lo porta stesse andando a un torneo o alla battaglia, dove i segni di riconoscimento sono indispensabili, nella mischia e nel corpo a corpo, per capire se sei amico o nemico. Altre diciture a grandi caratteri occupano pettorali, schiene e corrono persino lungo le maniche dei giubboni, e sono tutte rigorosamente in inglese. Serviranno certamente, immagina il visitatore (che si sta chiedendo in che paese sia capitato, evidentemente una colonia anglofona), a proclamare l’appartenenza a qualche corporazione, casata o casta, o a impressionare eventuali avversari. Avranno comunque un senso, quelle diciture, pensa il nostro viaggiatore, e non sa che solo di rado ne hanno uno, essendo per lo più frutto della povera fantasia di chi ha “creato” il giubbone che le proclama, scopiazzando dalla concorrenza e non seguendo altro che l’andazzo della moda. Difatti se il visitatore s’avventurasse a chiedere a qualcuno dei passeggeri di tradurgli il significato delle scritte che reca addosso, avrebbe al novantanove per cento per risposta un “boh”.

Le scarpe, poi. Gli appaiono fascinosamente orribili, spropositate, protesi sgargianti piuttosto che calzature, e ogni paio è diverso dall’altro, in prodigiosa varietà. Scarpe transgenerazionali “tanto brutte da diventare belle”. Le suole sono enormi, bianche o coloratissime, fuse nella tomaia e stampate nella gomma o in qualcosa del genere, dentate, scanalate, scolpite profondamente, con elaborate protuberanze e rientranze ispirate, sembra, a certe facciate di palazzi barocchi. Anche le tomaie sono decorate con intricati segni araldici, caratteri alfabetici, scritte e immagini. Qualche ragazza ha le scarpe dorate o d’argento, come se andasse a una festa, ma le stringhe sono slacciate e si strascinano impolverate sul pavimento. I piedi semiscompaiono sotto l’orlo sbrindellato delle brache basse di vita, portate molli, afflosciate sulle caviglie, calpestate dai tacchi, volutamente stracciate anche sulle ginocchia e sul sedere sino a mostrare la pelle e la biancheria intima. Se qualche giubbone è aperto, si constata che queste povere figlie indossano patetici maglioncini troppo corti, con sotto niente o al più canottiere che sporgono con l’orlo smerlato. E poiché le cinture non tengono e scivolano sui fianchi, le sventurate mostrano la pancia nuda, spesso tatuata e con l’ombelico pinzato da un anello o da un vetro luccicante. Altri anelli, ganci e vetri incrostano i padiglioni delle orecchie, il naso, le labbra. Se qualcuna di loro ride, si scopre che spesso anche la lingua è stata perforata per infilarci una perlina o qualcos’altro del genere.

Chi saranno, si chiede il visitatore, gli snaturati genitori che mandano in giro a frotte ragazzine conciate così? Non hanno soldi per coprirle di più, che non patiscano il gelo invernale? O forse lo fanno apposta, perché le giovinette suscitino più pietà nel prossimo e fruttino più proventi nell’accattonaggio? Ma quelle piccole fiammiferaie non sembrano patite, spesso sono anzi bene in carne, hanno i capelli ben lavati e scherzano allegre tra loro, hanno un’aria proterva, non si sognano di elemosinare. Portano tutte al polso fantasiosi orologi, insieme a braccialetti e monili, hanno anelli alle dita e le unghie dipinte di incredibili colori. Qualcuna ha i capelli virati in rosa o in violetto elettrico. Stringono in mano scatoline che ogni tanto trillano motivi musicali. Loro le portano all’orecchio e vi riversano ad alta voce lunghe chiacchierate farcite di stereotipi e di parole tabù come “cazzo” e “figa”, ma ben costruite, espresse scioltamente.

Ognuna delle ragazze reca sulle spalle uno zaino, anch’esso coloratissimo e gremito di diciture stampate, ricamate, disegnate a mano, in modo da occupare ogni spazio libero, in orrore del vuoto. Da molti occhielli pendono bamboline tempestate di strass, burattini snodati, animaletti, orsetti, coniglietti dall’aria aggressiva, mostriciattoli, feticci, amuleti, piccoli totem scaramantici. Gli zaini così personalizzati sono tutti ugualmente gonfi e pesanti. Da qualche apertura malchiusa spuntano libri e quaderni. Queste straccione sono dunque studentesse! Ad una fermata sale una frotta di adolescenti, ma stavolta maschi, ugualmente protervi, curvi sotto zaini altrettanto pesanti, abbigliati come le femmine, alle quali si mescolano senza problemi. O almeno così pare, manca il tempo per riconoscere i teneri segni delle timidezze e incertezze adolescenziali. Tra loro c’è sempre un punk con la chioma arancione foggiata nella lacca, a figurare creste mohicane o foreste pietrificate. Alla prossima apertura di porte, l’intera corte dei miracoli scende schiamazzando e si disperde, nel vagone torna una relativa quiete.

Se il visitatore immaginario è salito a bordo d’estate, altri grandi stupori l’aspettano. Si vedrà circondato da gente che ha abbandonato le bardature da torneo o da spedizione polare e ha risolto la questione della calura scamiciandosi, anzi smagliettandosi se è un maschio, mentre tra le femmine la soluzione è il denudamento. La più vestita delle donne porta una camicetta striminzita e trasparente, sempre coperta di scritte e di marchi, sotto la quale si vede benissimo il reggiseno, se c’è, e se no la punta dei capezzoli.

Ma questo è il limite massimo di copertura. La maggioranza va in canottiera colorata o in sottovesti cosiddette “succinte”, che non si sarebbero usate un tempo nemmeno nei bordelli. Un turbinare di desnudità senza problemi, con esibizione costante non solo delle consuete pance con ombelico, ma anche delle ascelle. Rasate e, peraltro, quasi sempre profumate di deodorante, a pochi centimetri dagli occhi e dalle narici dei compagni di viaggio. Anche di ciò il nostro visitatore estraneo si stupirebbe: nonostante tutta la carne sia praticamente in mostra, la vettura non puzza di sudore, se non per poche zaffate subito disperse d’una qualche rara mosca bianca o nera o d’altra tonalità, che non ha trovato il tempo per lavarsi.

Più giù lungo il corpo, le solite brache sbracate, ora leggere o leggerissime, tanto da far trasparire, ben ostentate sotto, parvenze, idee essenziali e minimaliste di mutande. Guardati da dietro, i sederi si evidenziano in tutta la loro consistenza globale, nel senso sia di globità glutea, sia di globalità mostrata. La percezione delle mutande o perizomi, se ci sono (e si può dubitarne), esige vista perfetta e addestrata alla ricerca dei due semicerchi, che dovrebbero delimitare in alto l’indumento segnandone gli orli, per poi congiungersi in discesa al centro verso il punto del desiderio e delle evacuazioni. Ma qui, invece, tutto sparisce, tende al nulla, e se fa nascere interrogativi e perplessità nel viaggiatore abituale, figurarsi in quello immaginario.

Anche gli uomini e le donne non in età scolastica sono dotati, d’estate e d’inverno, di zaini, zainetti, borse portate a tracolla. Spiccano certi giganti neri, alcuni trascinanti enormi sacche. Il loro abbigliamento non varia rispetto ai bianchi, li accomuna la stessa comoda informalità e l’identica sciatteria. Ci vuole un po’ d’attenzione e d’esperienza per capire qualche diversità, gli abiti più a buon mercato tra i neri. Tra i quali spicca talvolta qualche raro uccello elegantissimo (un etiope, un malgascio o un tunisino?), paludato con uno splendido caffettano candido o azzurro, dagli orli ricamati, senza una piega. Non si mescola con i conterranei, dev’essere d’una classe sociale diversa. Non un ricco, perché i ricchi non vanno in metropolitana. Probabilmente un immigrato che ha studiato, che aveva qualche risparmio da parte e che avrà pensato: “se vado lassù devo presentarmi bene” e ha investito tutto in un abito sbagliato, elegante ma etnico, che moltiplica la sua alterità e lo fa apparire alla nostra supponente ignoranza solo un manichino folcloristico.

Benché i passeggeri sembrino tutti alfabetizzati e acculturati e non siano rari i lettori di giornali e libri scritti in caratteri arabi o cirillici o hindi o d’altra lingua asiatica, colpisce l’assenza totale di comportamenti che facciano pensare a distinzioni e gerarchie sociali da rispettare (e il viaggiatore immaginario potrà ricavarne, a seconda delle sue convinzioni, motivo di soddisfazione o di scandalo).

Colpisce ancora una diffusa maleducazione, soprattutto con il telefonino. Se arriva un trillante appello dalla scatoletta già pronta in mano, la persona chiamata, fino a questo punto silenziosa e sulle sue, prende di botto a conversare con l’invisibile interlocutore senza il minimo controllo della voce e mettendo in piazza brani intimi della prora vita, come se la sua sfera privata si fosse improvvisamente estesa a tutto il vagone e a tutti coloro che conviaggiano al momento.

Nessuno poi (tranne qualche vecchio fuori moda o polemico, o qualche extracomunitario in cerca di simpatia), si sogna di cedere il posto a donne e anziani. La regola aurea del “ciascun al suo posto” è sostituita da: “ciascuno al posto che trova e che gli va”. Che non si lascino sedere le donne potrebbe essere giustificato sia dalla (formale) parificazione dei sessi sia dal fatto che le femmine, di ogni età, appaiono al visitatore estraneo donne libere o, in altre parole, tutte puttane. Le vecchie sono imbellettate, hanno capelli tinti e occhi truccati. Le studentesse sono state già descritte, ma quelle uscite dall’adolescenza non sono da meno, con le loro unghie dipinte di turchese o di nero, il maquillage finto naturale con effetti di bagnato, le labbra satinate, la chioma arcobaleno e le sopracciglia in tono contrastante, le palpebre ombreggiate con riflessi metallizzati o perlescenti…

* * *

Quale viaggiatore ipotetico associare dunque ai dati della mia esperienza sensoriale d’un tragitto metropolitano, per essere sicuro di vederlo attingere al grado massimo pensabile di trasalimento?

Mi sono persuaso che non sia necessario risalire troppo nel tempo per trovare il tipo ideale di visitatore fantastico da sottoporre alla prova. Dovrei certamente sceglierlo pescando in un periodo storico caratterizzato da una notevole intolleranza. Se lo prelevassi, per esempio, dall’Italia degli anni Trenta del Novecento andrebbe benissimo. Prendere uno che condividesse le idee correnti all’epoca in fatto di ordine sociale e di regole conclamate di vita e di pensiero, e che ritenesse inconcepibile pensare e vivere al di fuori di esse. E si fosse convinto (fosse stato convinto), che la nostra “razza”, debitamente educata, è la migliore possibile.

Come mi divertirei nel vederlo strabuzzare gli occhi e impallidire di rabbia al cospetto di tanto pittoresco caos interclassista, interrazziale, intergenerazionale.

Anche lui, come Leonardo, finirebbe per dirsi, ma con diverso spirito (da me stavolta non condiviso): “Avevamo ragione!”.

In difetto di facoltà paranormali e parascientifiche per attivare dispendiose traslocazioni di qualcuno nel tempo e nello spazio, devo accontentarmi di trasformare me stesso, al semplice costo d’un biglietto, in viaggiatore immaginario.

Perché sono io, in verità, l’esploratore assetato di meraviglia, in cerca di ogni possibile pretesto di sorpresa low cost. E ogni volta che salgo in un tram, in un bus o in metropolitana, faccio scattare il tic quasi compulsivo della simulazione temporale: sono piombato lì da qualche vita passata e osservo, stupisco, confronto, fantastico, moraleggio.