Svarianze
I viaggi e il passato
Testo letto a Sanremo – Teatro Ariston ad un convegno sui «viaggi in treno» (7/10/2006)
Non posso nascondere una certa emozione e anche un certo imbarazzo nel tornare, dopo quasi cinquant’anni a San Remo (in treno, naturalmente).
Un certo imbarazzo per il fatto di venirvi a raccontare qualcosa sui viaggi in treno dopo aver sentito citare da chi mi ha preceduto fior di narratori di storie ferroviarie, da Tolstoj a Trollope, Stevenson, Andreev, Collodi, Butor e via viaggiando.
Ma sono anche emozionato di tornare, addirittura da relatore, ad un importante convegno nella “città dei fiori”, dove ebbi occasione di seguire, mezzo secolo fa, come giovane inviato dell’agenzia ANSA, qualche edizione del Festival della Canzone. Non qui al Teatro Ariston, dove il festival si tiene attualmente, ma nel Salone delle Feste del Casinò.
E vi dirò in proposito qualcosa di archeologico che non c’è nelle storie del Festival. Nel 1958 fui proprio io a dare sottovoce a Domenico Modugno il primo annuncio che Nel blu dipinto di blu aveva vinto.
Me lo aveva appena sussurrato un amico dell’organizzazione, dalla porta socchiusa della stanza in cui sedeva la giuria (io stavo lì di fazione da un’ora: caspita, ero dell’agenzia ANSA, dovevo essere il primo in Italia a saperlo e a comunicarlo!).
Mi ricordo che Mimmo Modugno si mise a saltare di gioia chiamando la moglie: “Franca, Franca, abbiamo vinto!”
Alla fine della serata (allora era una faccenda abbastanza semplice, quasi famigliare, non ancora uno spettacolo colossal), montai sul palco con altri colleghi e ballai con Modugno e sua moglie (ci dovrebbero essere ancora le foto da qualche parte).
Fu una serata liberatoria, in cui festeggiammo l’avvento a Sanremo (e quindi nella canzone italiana), dei cantautori, di un nuovo modo di fare le canzonette e anche di cantare. Vi sembrerà impossibile, ma allora il gesto di Modugno che alzava le braccia in alto cantando “Volare” fu un fatto rivoluzionario, in un mondo canoro dominato da Claudio Villa, Gino Latilla e Nilla Pizzi.
Anche l’anno dopo, nel 1959, la storia si ripetè, e fui ancora io ad annunciare in anticipo a Modugno e Dorelli che avevano vinto con Piove (che guarda caso cantava la storia di una ragazza che parte col treno).
A questo punto dovrei dire “basta coi ricordi”, ma il tema che mi sono scelto ha invece a che fare, oltre che con i viaggi in treno, proprio con i ricordi. Di cui non riesco evidentemente a liberarmi.
La mia però non sarà una “relazione”. Nel programma dicono che sono uno “scrittore” e quindi da scrittore mi comporterò e vi leggerò qualcosa che non è un racconto di viaggio ma delle variazioni sul tema, diciamo delle “svarianze”.
Dunque: I viaggi e il passato.
Il sistema più semplice è calcolare quanti giorni dura il viaggio e segnare per ogni giorno un cambio completo: una mutanda, una canottiera, una camicia, un paio di calze. Non conta se non ci si cambia tutti i giorni tutto: l’importante per il calcolo è prevedere il massimo probabile.
Un pigiama basta per una settimana; sempre le pantofole da viaggio, leggere e piatte per non occupare spazio, ma ampie, per infilarle comodamente e per non bagnarsi i piedi lavandosi; un pullover (meglio un cardigan), con maniche o senza, di lana o di cotone secondo le stagioni; un paio di calzoni di ricambio, per il caso malaugurato di sbrodolamenti; una giacca, se occorre (ma ormai si può andare senza, chi ci bada più: basta un giubbetto, d’estate, con tante tasche come quelli dei pescatori).
Le cravatte non rientrano nel conto. Pare, del resto, che ai formalissimi giapponesi siano addirittura sconsigliate sul lavoro, a risparmio dell’aria condizionata. E tanto più per i viaggi informali. Nemmeno si considerano i fazzoletti, tranne quello già infilato in tasca, se non c’è un raffreddore in corso (al quale del resto si può provvedere benissimo con i fazzolettini di carta). Il foularino per il collo, un tempo tocco di classe, e più tardi lo strangolino ribelle, sono ormai accessori obsoleti. Per le scarpe, un paio leggero (marrone, naturalmente) e, nel caso ci sia da camminare o che piova, uno più pesante, magari di quei nuovi tipi sportivi con la suola di gomma o di qualche plastica incollata a caldo sulla tomaia. L’impermeabile forse, se fa freschetto o, appunto, se piove (il soprabito non si porta più dopo la scomparsa delle mezze stagioni), ma l’ombrello ripiegabile non deve mancare. Il berretto sempre, di lino o di lana, per proteggere la testa e i pensieri. Guanti e sciarpa, d’inverno s’intende, tempo dell’anno che ha sostituito il pesante cappotto con il giaccone imbottito, portato una volta solo da cinesi e altri popoli alieni.
Quanto alla toilette, si è già ridotto da tempo tutto al minimo, in un borsetto che tiene il dentifricio, lo spazzolino e il deodorante, la pinzetta, il tagliaunghie con limetta incorporata, la spazzoletta a setole larghe per i pochi capelli, con specchietto nel manico, il rasoio elettrico a batteria ricaricabile col suo pennellino per pulirlo, e tre flaconcini di plastica in cui si è versato un tot da viaggio di prebarba, dopobarba e acqua di colonia.
Il temperino multilama svizzero è indispensabile per sbucciare la mela, dividere in due il panino e farsi un sandwich, o per altre emergenze. E, in una taschina del borsetto, accanto alla lente contafili pieghevole da dieci ingrandimenti (che può servire per vedere meglio le cose minime che sfuggono all’occhio nudo, come la spina nel polpastrello), la scimmietta portafortuna di pietra verdolina, che pare ritagliata nel sapone palmolive. Una volta era del padre, che la portava sempre in tasca da studente al tempo degli esami, ed ora è passata al figlio. I tanti decenni (contando bene si scopre che, anno dopo anno, si sta per arrivare al secolo), l’hanno smussata e consumata, e si fa fatica a capire che è una delle tre scimmiette del “non vedo, non sento, non parlo”.
Al Portobello di Londra, molto tempo fa, il figlio ne aveva trovata un’altra identica, delle stesse dimensioni e della stessa pietra verde, ugualmente smussata e consumata, tanto da non poter riconoscere a quale delle tre negazioni si riferisse. L’aveva regalata al suo bambino, che doveva averla usata saltuariamente, senza troppo crederci, non considerandola quindi l’oggetto magico dal quale non ci si può mai separare. Dopo essere stata a lungo sul tavolo da studio della cameretta infantile, quella seconda scimmietta inglese giace ora nella scatola di cianfrusaglie su uno scaffale, accanto ai giocattoli smessi, insieme a tante altre piccole cose delle quali l’ex fanciullo, ormai ragazzo, anzi quasi uomo, non sa disfarsi. Semmai passandole gradatamente, dopo lunghe quarantene, dallo scaffale al primo cassetto, poi al secondo, poi allo scatolone nel ripostiglio, da dove qualcuno, al prossimo riordino o trasloco – perso il significato affettivo o apotropaico assegnato a certi oggetti – provvederà ad una definitiva eliminazione.
Il bagaglio del viaggio non è completo se manca il necessario per scrivere e cancellare: matita a mina continua da 0.9 di media durezza, gomma morbida, penna a sfera, stilografica con cartucce di ricambio, pennarelli nero e rosso con punta 0.1, tutto stipato in una vecchia scatoletta di latta per matite Staedtler. Per le eventuali annotazioni, oltre all’agendina con rubrica telefonica, un taccuino (possibilmente a piccole righe, sempre più raro da trovare, purtroppo). Indispensabili ancora: un paio di occhiali di ricambio (“di rispetto” direbbe Pavese traducendo Melville), e le medicine sempre più numerose da assumere ogni giorno. Infine, uno o due libri, da infilare volta per volta nella valigia scegliendoli fra i tanti non letti o da rileggere, e tra i più sottili. Se il viaggio è un po’ lungo, anche la rivista con il saggio finalmente da affrontare e le pagine culturali arretrate dei quotidiani, tenute da parte per l’occasione.
La domanda, a questo punto, è se si debbano portare con sé un po’ di ricordi, o addirittura tutto il passato anche nei brevi viaggi senza impegno. Non è domanda oziosa o viziosa. Seriamente, il passato – tutto o in parte – non dovrebbe, anzi non può mai mancare in qualsiasi viaggio, lungo o breve. Ma dove metterlo? Dire che la valigia (ora con le rotelle e il manico allungabile) o la sacca o lo zaino non servono, perché il passato accompagna in ogni momento e ovunque chi viaggia e chi non viaggia, senza bisogno di doverlo infilare in qualche parte, è affermazione opinabile. Eppure c’è sempre qualcuno, facile alla commozione, che trova modo di far intendere con un sorriso umido – non si capisce bene se allegro o triste – che “è tutto qui dentro” (e intanto che lo dice porta una mano molle prima alla fronte e poi al cuore, come nella pubblicità del tè, e sul cuore batte due volte). Ma sarà vero?
E qui si impongono altre domande, noiose forse, ma indispensabili. E ineludibili.
Si può veramente esser sicuri che “tutto è lì dentro”? Esiste forse una distinta del passato, con tutti i ricordi elencati alla rinfusa come vengono, secondo il metodo dell’accesso casuale, o classificati invece per materie, categorie, sottocategorie, ripartiti secondo criteri razionali e rigorosi – questo nella mente, quello nel cuore – con le date e quanto altro serva a ripescarli facilmente? Magari catalogati secondo le regole aggiornate della memoria elettronica, dove basta la parola chiave o un clic ben assestato per ripescare ciò che si vuole e nell’ordine che si vuole, se tutto è stato archiviato correttamente? O forse si può, come nei filmati della Nasa prima che partano gli astronauti, verificare sui protocolli delle procedure se non si è scordato niente, se qualche ricordo è stato dimenticato a terra? Si può essere sicuri di aver preso con sé tutto il passato, i begli anni, gl’istanti gioiti, ma anche la parte più ingombrante e difficile da trasportare, le esperienze, i dolori, i rimorsi, le brutte figure, le facce, i gesti, le parole, insomma tutto il pacco dei ricordi, come s’è trovata a portarsi dietro, alla stazione una mattina d’autunno, la pensosa Lidia? Si può perché lo dice il poeta? Ma i poeti vendemmiano nella vigna dei ricordi, le esalazioni dei tini rendono sempre un po’ dubbia la loro attendibilità.
La scienza (la Scienza!) assicura che tutto il passato è stivato nella testa. “Stivato” è termine antiquato, sa del gergo dei naviganti, quando i veri viaggi si facevano per mare ed erano sempre definitivi, perché non si sapeva mai se si tornava o no. Ed era bene portarsi dietro più cose che si poteva, e quello che non si poteva si doveva regalare, vendere o buttar via. Adesso si usa dire “registrato” o “memorizzato”, metafore neomeccanicistiche prese dal gergo dei computer, ma per significare un complicatissimo processo attivato incessantemente dai sistemi biochimici del cervello, e smistato attraverso milioni, anzi, miliardi di sinapsi e di neuroni. Chissà se fra cent’anni si dirà ancora così, quando il modello di riferimento non sarà più il computer ma qualcosa di nuovo, oggi impensabile, escogitato dalla scienza e applicato dalla tecnica, o ispirato a qualche altro sistema di pensare il mondo. Ad un nuovo soprannaturale, per esempio. Ad un soprannaturale scientifico. O si userà invece un termine che non sarà più metafora, analogia, rimando ad altro, ma una parola che semplicemente significherà quello che si vorrà dire.
Come si può, dunque, oggi, portare nei viaggi il passato? Si ha un bel dire che è tutto in testa (e nel cuore). Se uno si mette in viaggio senza bagaglio, con quello che ha in tasca e un giornale sottobraccio, subito si rende conto che i ricordi stentano ad andargli dietro. E’ come se fossero continuamente trattenuti da qualcosa, persone, veicoli, manifesti, paesaggi, rumori.
Succede come ai cani, sempre attirati da un odore nuovo, da qualche stimolo che li allontana continuamente dall’itinerario imposto dal padrone, il quale detiene, con il guinzaglio, il progetto del percorso da fare, avendo quella consapevolezza del futuro che il cane non ha. Ma è vero che non ce l’ha? Non ce l’ha forse il cane abbandonato crudelmente, che sa superare distanze incredibili per riunirsi al padrone, ora turbato da tanta ingiustificata fedeltà? La brava bestia ha seguito tracce inimmaginabili, ma che dovevano esistere ed avere un riscontro nei suoi ricordi. Il cane non ha bagaglio ma, lasciato solo, non perde i ricordi, non si distrae più, si costruisce in qualche modo un progetto di percorso (e di futuro), e ritrova il padrone.
Il viaggiatore senza bagaglio, invece, si distrae facilmente e senza rimedio. Un ricordo scivola di qua, uno se ne va di là, un terzo lo segue, altri sembrano spariti. E intanto i nuovi ricordi di viaggio si accumulano alla rinfusa e non si sa come sistemarli. Quasi uno stress se il viaggio dura più di qualche ora.
Se il viaggiatore ha il suo bagaglio, anche minimo, tutto diventa più semplice, i vecchi ricordi stanno chiusi con il vestiario e il resto, la valigia assomiglia alla lieve casa-gabbia-cappelliera che bastava (sempre secondo il poeta) a sovrastare i ciechi tempi e a riscattare Liuba in partenza con il suo carico di passato.
Un bagaglio, sia pure uno zainetto, è dunque indispensabile anche nei viaggi brevi (si sta parlando di viaggi in treno, naturalmente, quelli in macchina o in aereo o in nave fanno parte di tutt’altre categorie, che richiederebbero approcci diversi, da pensarci su bene prima di dire delle sciocchezze).
Come disporre il passato nella valigia, sacca o zaino, prima di partire? Come assicurarsi che i ricordi non escano e non si sperdano alla prima distrazione? Un sistema potrebbe essere questo: considerare i ricordi come fossero sogni (la sostanza, stringi stringi, è la stessa). I sogni sono ricordi ma non sono passato. O meglio, sono un passato immaginario. E proprio perché sono pura immaginazione (anche se, come qualcuno sostiene, stimolati da ricordi veri e rimossi, o da false posizioni nel sonno, o da cattive digestioni), i sogni, a volerli eventualmente portare in viaggio, potrebbero essere ficcati un po’ dappertutto, come le calze, per riempire i vuoti che restano sempre nella valigia. Così bisognerebbe fare anche con i ricordi veri, sistemandoli negli spazi disponibili. Non in ordine perfetto, dunque, non ripiegati con cura uno sull’altro, come si fa con le camicie perché non prendano brutte pieghe. I ricordi non si sgualciscono mai, come certi tessuti che escono intatti da una stretta del pugno. Possono sbiadirsi un po’ col tempo, talvolta può sembrare addirittura che qualcuno si confonda con un altro o addirittura si cancelli, salvo poi a tornar su sorprendentemente integro quando la misteriosa chimica del cervello trova il reagente e il momento giusto per rintracciarne e ripristinarne l’indistruttibile backup. I ricordi, insomma, non si perdono da sé, ma solo per colpa, trascuratezza, distrazione di chi li ricorda. Dopotutto, anche i vecchi smemorati non sono che persone molto distratte.
Ma, tornando ai viaggi, il segreto sta nel sistemare i ricordi in modo che restino ben compatti, che non si spostino in caso di scossoni, che non scivolino via se, aprendo la valigia per cercare il libro o il temperino, si rimescola senza criterio il contenuto e magari poi non si richiudono bene le serrature e le lampo.
L’unico vero rischio dei viaggi è però la noia. La noia nei viaggi è pericolosissima. Si girano con tedio gli occhi a guardare dal finestrino e subito (dal bagaglio, dalla testa o dal cuore, non si capisce da dove e come), ecco scivolar fuori un ricordo e poi un altro. Qualcosa che non ha niente a che vedere con il paesaggio che sta passando. Associazioni di idee? Valige non chiuse bene? Chissà.
* * *
Vorrei qui aggiungere un breve post scriptum.
Nell’elenco degli oggetti da portare nei viaggi in treno manca il telefonino. E questo per la ragione molto semplice che all’epoca in cui ho messo su carta questi appunti, peraltro non molti anni fa, i telefonini non s’erano ancora diffusi in questo Paese.
Non se ne vedevano – e specialmente non se ne sentivano – sui treni. E chi scriveva queste note non possedeva telefonini e non desiderava averne.
Sul perché di una così rapida ed esplosiva diffusione dei cellulari in Italia non è qui il caso di riflettere. Ma ecco un’altra domanda, anzi due: perché si trova normale e non si è generalmente disturbati dal fatto che due o più compagni di scompartimento o di vagone conversino tra loro in treno, anche ad alta voce, e magari si è invogliati ad unirsi alle chiacchiere? E perché, invece, si è infastiditi e si trova addirittura insopportabile che un viaggiatore parli al telefonino con un lontano, invisibile interlocutore?
In proposito, vi dirò che tempo fa ho scritto una lettera ad Augias della Repubblica, per suggerire un metodo, di cui ho sperimentato l’efficacia, per zittire i disturbatori col cellulare: mettersi a leggere, a voce simmetricamente alta, il libro o l’articolo del giornale che si ha tra le mani: Però la lettera non è stata pubblicata.