Svarianze
Grossomodo
Nessuna misura è mai esatta in fisica
(Carlo
Rovelli, La realtà non è come ci appare)
Il mondo deve essere misurato ad occhio
(Wallace Stevens, Sulla
via di casa)
Tornare al mondo del Pressappoco, casomai si tentasse di uscirne cercando una universale Precisione, e continuare a viverci bene, considerando che questo mondo pressappochista è pur sempre (grossomodo) il migliore dei mondi possibili?
Ogni volta che ci si pone questa domanda, non si sa mai se ci si sente angosciati o se si resta indifferenti.
Comunque sia, obbiettivo primario delle disquisizioni grossomodistiche che qui si andranno sciorinando, è dimostrare che: più si va nel piccolo e più si tende all’enorme.
Ma conviene lasciare le vane chiacchiere introspettive e passare agli esempi.
Il più semplice e accessibile al senso comune è il caso delle mappe. La migliore e più precisa che si possa immaginare del mondo (inteso qui come mappamondo), e di ogni sua singola parte, sarebbe ovviamente quella 1:1. Cioè coincidente punto a punto, si dica grossomodo al millesimo di millimetro, con la superficie della Terra. Un immenso foglio geografico avvolgente il globo, montagne e mari compresi.
Christo, geniale e furbo specialista in cartocci, ci avrà certo fatto un pensiero, ma deve averlo fermato la difficoltà di procurarsi fogli abbastanza grandi e resistenti all’acqua e agli uragani, senza contare i problemi di inquinamento e di traffico (e di soldi per pagare un’operazione così gigantesca). Come potrebbero poi respirare persone, animali e piante sotto quel foglio, come farebbero treni e auto a viaggiare, navi a navigare e aerei a decollare-atterrare senza tema di stracciare la carta? E in particolare, quanto starebbero a turno i respiranti sopra, e quanto sotto? E i sognatori avrebbero ancora modo di scegliere quando affacciarsi a mirar l’umido cielo?
Anche se si allarga al massimo l’angolo purtroppo abbastanza ristretto della visione umana del reale e dell’immaginario, va confessato che non si riesce a vedere l’utilità di una simile mappa. Chi qui scribacchia, (ignaro allora dei cartografi cinesi di Borges ossessionati dalle insistenze dell’Imperatore per la massima precisione), confessa del resto di aver molti anni fa proposto una carta 1:1 a una tenzone di idee “originali” concernenti il Vesuvio. Difatti il Touring Club Italiano, nel realizzare il Grande Atlante Stradale d’Italia, e pensando agli utilizzatori, ha ristretto l’intero Stivale in soli 94 fogli, riuniti in un libro comodamente consultabile viaggiando in macchina. Lì dentro, secondo quanto assicurano le istruzioni per l’uso, la scala è di 1: 225.000 e ogni kilometro corrisponderebbe a 4,4 millimetri.
Pressappoco, si pensa, ma sicuramente nemmeno l’esattissimo ingegnere meccanico austriaco Robert Musil avrebbe fatto una tragedia se avesse scoperto che i millimetri fossero stati grossomodo 4,39 e tre quarti e che, puntando lo spillo più sottile a sua disposizione su una città anche piccola, la punta sarebbe sconfinata «oltre i suoi confini e le importanti colline che per essa significavano l’alba e il tramonto».
Quindi: le grandissime grandezze della terra sono state ristrette, per renderle facilmente accessibili ai bisogni comuni della gente, a misure pressappoco portabili, ricorrendo a una operazione di miniaturizzazione.
Anche nei mezzi messi a punto per viaggiare verso altri mondi si è seguita la stessa regola: rimpicciolire tutto, costi quel che costi (in realtà è costato moltissimo, e questa è una prima prova che il piccolo tende all’enorme).
Non si sono fatte e non si ha voglia (o non si è capaci) di fare ricerche e conti in proposito, ma si può scommettere che, analogamente, la stessa cosa sia successa e continui a succedere, sempre per ragioni di comodità, anche in altri campi. In molti altri campi ma, a quanto dicono coloro che se ne intendono, non se entrano in ballo le particelle elementari.
Con quelle, tutto cambia. Si sta ora parlando di quelle cose già ultrapiccole, che una volta, ai beati tempi dell’innocenza scolastica, venivano chiamate atomi o al massimo elettroni, ma alle quali negli ultimi quarti di secolo i fisici, alla ricerca del sempre più piccolo, hanno dato, tra un premio Nobel e l’altro, molti nomi fantasiosi: fotoni, gluoni, fermioni, gravitoni, leptoni, muoni, neutroni, neutrini, quark, up, charm, top, down, charge, beauty e via rimpicciolendo.
Con tali minime briciole del cosmo le faccende si complicano, e l’avverbio giusto da far seguire in questo caso dovrebbe appunto essere: enormemente.
L’esempio che appare più significativo (o significante?) in questo micro-campo è quello del faraonico marchingegno LHC messo in piedi (anzi sotto i piedi) dal CERN, in un tunnel sotterraneo di forma ellittica lungo ben 27 kilometri, scavato tra Svizzera e Francia, pressappoco 100 metri sotto l’aeroporto di Ginevra e i monti Giura.
Scopo dello scavo: collocarci, in due tubi supersottovuoto mantenuti alla temperatura grossomodo più prossima possibile allo zero assoluto, migliaia di supermagneti, per far girare 40 milioni di volte al secondo o giù di lì le mini-particelle in direzioni opposte, a velocità inferiore solo di un pochissimo tot a quella della luce. E a un certo punto farle scontrare, per vedere, come nella canzone di Jannacci, l’effetto che fa.
Gli scienziati volevano tra l’altro ricostruire in piccolo, in vitro, nientedimeno che la situazione dell’Universo pochi nanosecondi dopo il Big Bang, evento fondativo del Tutto, tornando indietro virtualmente nel tempo, pare, di ben 13 miliardi e rotti di anni. Secondo una teoria o ipotesi di cui, per ora a quanto sembra, è rimandato l’accantonamento.
Fatti i calcoli, ci si accorse che per guardare bene (anzi: simulare di guardare) dentro una microcopia dell’immane esplosione del piccolissimo punto in cui, in quel momento-non momento (difatti il Tempo non c’era ancora), s’era chissà come concentrata tutta l’energia-materia, occorreva uno strumento precisissimo ma anche grandissimo, il più grande e complicato che fosse mai stato realizzato dall’uomo. Adatto alla attuale epoca neotecnica, che vuole ‒ come diceva il beneamato Alexandre Koyré ‒ «strumenti con le dimensioni di officine» ed oltre. Cioè macrostrumenti per vedere le microcose.
Quando fu annunciato l’avvio della costruzione dell’opera, qualcuno si allarmò e ricorse addirittura alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, per fermare i lavori, temendo che ‒ visto come talvolta s’incazzano nel loro piccolissimo le particelle, tipo bomba termonucleare ‒ l’effetto del loro scontro potesse provocare, se non un nuovo Bang, un buco nero capace di causare fantascientifiche catastrofi, dislocazioni temporali o magari, più semplicemente, uno svenimento collettivo dell’intero genere umano, per non parlare degli altri animali (e perché no ‒ si può benissimo aggiungere ‒ una pioggia mondiale di rane o di coriandoli variopinti?). Ascoltati gli esperti, secondo i quali il rischio era molto minore della probabilità di vincere una lotteria da un miliardo di miliardi di Euro, la Corte, Justi Latrix, decise che si poteva proseguire, e i timorosi persero la causa.
Non si è seguito nei dettagli il resto della vicenda e si sono perdute, se mai ci siano state, proteste di ambientalisti attorno all’enorme cantiere, manifestazioni, cartelli NO LHC, blocchi,tafferugli, sabotaggi, grandi titoli sui giornali e interrogazioni parlamentari.
Ciò che è poi accaduto è ormai leggenda, più o meno metropolitana: anni di lavori, si assicura esattissimi, prove d’avvio e d’accelerazione sempre più precise delle particelle, guasti (ahi! uno dovuto, sembra, a una lattina vuota di birra dimenticata da un pressappochista nel groviglio di cavi, tubi e congegni). E, finalmente, il fatidico 4 luglio 2012, tra fulmini e saette, fuochi d’artificio e altri fantasmagorici ancorché microscopici effetti speciali, la scoperta! Anzi, la conferma dell’esistenza della – almeno per il momento – ultima particella, il bosone di Higgs, che mancava per capire effettivamente (o quasi) quel che era accaduto all’atto del Grande Inizio.
Trionfo e subito premio Nobel al bravo Professor Higgs (e al collega Professor Englen). Il primo dei due aveva sin dal 1964 ipotizzato, con i sui calcoli grossomodo precisissimi al tavolino, l’esistenza del nuovo bosone (definito lì per lì la particella di Dio da giornalisti esagerati, ma si immagini la scena, se fosse vero). Higgs aveva fatto di più: aveva messo a punto un modello teorico della microstruttura del mondo, che prevedeva la presenza della dannata particella, e lui stesso non si capacitava di preciso come.
I maligni dicono che far coincidere la data di conferma dell’esistenza del bosone con il 4 luglio, festa dell’Indipendenza americana, sia stato uno sberleffo dell’Europa e del CERN agli USA, che con tutti i loro soldi e presunzione tecnologica, non erano riusciti a metter su un marchingegno come l’LHC.
Però il 4 luglio ricorrono un sacco di anniversari. Non è solo la data della fondazione degli Stati Uniti, è anche il giorno dell’anno in cui la Terra è prudentemente più lontana dal sole, quello dell’esplosione della supernova che, nel 1054, diede vita alla nebulosa del Granchio, nonché quello in cui la sonda Nasa Pathfinder atterrò precisissima (a quanto assicurano), su Marte nel 1997. Il 4 luglio 1910 segnò poi la prima vittoria k.o. nella storia di un pugile nero, Jack Johnson, sul bianco Jim Jeffers (con seguito di sanguinose manifestazioni razziste). E nel 1941, per non esser da meno, i nazisti sempre in cerca dell’ordine più preciso che mai, festeggiarono la ricorrenza con una strage in massa di scienziati e scrittori polacchi a Lvov. Ma è anche il dì in cui (non si sa secondo quali calcoli), i veronesi Romeo e Giulietta si sarebbero incontrati per la prima volta in casa Capuleti. Ed è la data, questa sì certa, in cui uscirono Alice nel Paese delle Meraviglie nel 1865 e il primo ebook nel 1971. Può darsi altresì che, quel 4 luglio, sia successo a chi scrive qualcosa di epocale, capace di metterlo alfine in riga, ma essendo egli un distratto casinista, la cosa non fu da lui notata e/o annotata.
Tornando ancora per un momento al bosone, non sarà certo l’estensore delle presenti note, ignorante cialtrone, a mettere in dubbio che i calcoli del Professor Higgs fossero e siano grossomodo esatti. Va detto, peraltro, che sfogliando confusamente qua e là libroni grossi così, non si è potuto far a meno di notare che molto spesso protagonisti anche massimi nella storia della scienza tendono ad arrotondare grossomodo le cifre su cui lavorano. Dando ragione a quanto concordemente sostengono, in epigrafe, due maestri di campi diversi: fisica e poesia. Raramente sono intere, in effetti, le cifre su cui lavorano i cervelloni della scienza, Essi sostengono che le arrotondano per comodità, e certo avranno tutte le sacrosante ragioni per farlo, viste le ardue difficoltà che incontrano ad ogni passo. Ma sta di fatto che i loro numeri, il più delle volte, non sono interi ma virgolati. E non ci si riferisce solo al classico Pi greco, che come si sa è un 3 seguito, dopo la virgola, da un’infinità di numeri che diventano sempre più piccoli fino a perdersi all’orizzonte.
C’è, per esempio, il 137. Numero che, ai più, non fa generalmente né caldo né freddo. E invece da secoli fior di cervelli hanno passato anni e anni, notte e giorno, ad arrovellarcisi su. Anche perché, non ci si chieda per quale ragione, va scritto 1/137 (sarebbe cioè un numero che chiamano frazionario, cioè un rapporto tra due numeri interi). Scoprendo che, virgolandolo e aggiungendogli in fila cifre e cifre, esso diventa addirittura una cosa che i dotti chiamano costante di struttura fine.
Certi scienziati di Harvard, pensa e ripensa, hanno escogitato un complicatissimo esperimento su un’apparecchiatura enorme per aggiungere precisione a precisione, arrivando a misurare il più finemente possibile il valore di tale costante. Ci si perdoni se qui si accenna a snocciolarne in numeri una minima parte: 137,035999074 … ecc. Cifra che poi risultò un po’ sbagliata e fu corretta, dopo altre misurazioni ancor più complicate, in 137,035999084 … ecc. con una precisione di 0,37 parti su un miliardo. Grossomodo. Cos’hanno cioè fatto i cervelloni? Hanno collocato una accanto all’altra una quantità di piccolezze che sembra francamente, ancora una volta, enorme.
Persone degne di assoluta fiducia, che si occupano di faccende diverse, trovandosi assieme a chiacchierare e calcolare, hanno poi scoperto trasecolando e misticheggiando, che lo stesso numero, intero o gigaminimamente virgolato o frazionato che sia, si ritrova nel Pi greco, nella sezione aurea e – udite udite – nella parola ebraica che significa Cabala. Arrivando a dire che esso numero è alla base di una sorta di Legge e Ordine della Natura.
Ma se si viene a parlare di Bibbia, c’è chi sostiene, calcoli alla mano, che il libro della Genesi contiene addirittura tutti i numeri delle 12 costanti atomiche, virgole comprese, che i geni fisico-matematici dei nostri giorni hanno creduto di trovare sinora dopo anni di estenuanti fatiche mentali. Il segreto era contenuto, guarda un po’, nei numeri corrispondenti alle età incredibili dei patriarchi e delle loro tardissime filiazioni. Nulla davvero di nuovo sotto il sole, diceva dunque giustamente, tre secoli prima di Cristo, l’Ecclesiaste del saggio Qohelet (che qualcuno sospetta essere il nome de plume,nientedimeno, di Re Salomone).
A rovinare la festa è venuto però l’autorevole astronomo olandese Cornelis de Jager, che ha scoperto come «il quadrato del diametro della pedaliera della sua bicicletta, moltiplicato per la radice quadrata del prodotto dei diametri del campanello e del fanalino, era uguale a 1816, ossia appunto al rapporto tra la massa di un protone e quella di un elettrone» (che è grossomodo una delle costanti sopra citate). L’astronomo non ha messo al numero nessuna virgola, e questo può suscitare qualche perplessità. Assicurano tutti, c’è da dire, che egli è persona degna di fede, anche se talvolta un po’ burlador. Ha diretto l’osservatorio astronomico di Utrecht e il suo nome è stato assegnato a un grosso asteroide che circola da qualche parte.
Tutto sembra congiurare per far coincidere, lo si voglia o no, i numeri delle famose costanti con tutto ciò che si usa chiamare Natura. La quale, pertanto, avrebbe per base non numeri interi, ma virgolati, approssimazioni sempre più esatte all’esattezza, cercando il sempre più piccolo ma andando, in sostanza a microspanne, grossomodo, verso qualcosa che appare a molte delle persone, beote incompetenti e confusionarie come chi scrive, vieppiù allungarsi, nel suo piccolo, verso un sempre più grande.
Dopo tutte queste digressioni, di cui stavolta non vale la pena di scusarsi con quei pochi che fossero arrivarti sin qui, è tempo di tornare al dunque. Che potrebbe essere così sintetizzabile (se non si è saltato qualche passaggio o luogo topico, cosa che purtroppo accade spesso a chi sta qui dissertando): le cose grandi tendono al piccolo, e le piccole al grande.
Per raggiungere il Bello (pare anzi che sia Bellissimo), della Massima Precisione. O pressappoco.